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1987

Giorni fa, ho compiuto 49 anni.

Per una singolare ‘simmetria’ numerica, il compleanno è stato assolutamente significativo: sono passati, infatti, trent’anni da quando mi sentii di… festeggiare per la prima volta il mio compleanno con una festa ‘vera’ degli anni Ottanta: di quelle con tanto di garage preso in affitto, stereo portato da casa, vinili vari (mix compresi), compagni di classe ed amici.

L’anno prima ero diventato maggiorenne: ma era stato un anno terribile per me, buio come pochi; per mesi venivano al pettine tutti i nodi della mia adolescenza e mi resi conto che ero ‘solo’.

Sperimentai, insomma, con consapevolezza la mia ‘solitudine ontologica’; il vuoto dell’anima che si crea in una persona: aiutato, certo, dal sapere di non avere nessuno vicino (per la mia timidezza e per essere, di fatto, cresciuto da solo); non mi servirono allora nè gli ottimi risultati a scuola; nè la mia passione politica (ero, di fatto, un socialista ‘critico’); nè -men che meno- la mia voracità per l’informazione, il mio essere sempre ‘al corrente’, ‘al passo coi tempi’.

Non mi furono di alcun conforto, se non per distrarmi.

Nell’86, quindi, non festeggiai la maggiore età.

Ma lo feci, quindi, l’anno dopo, nel 1987: perchè quel vuoto venne riempito, come per un Dono inaspettato, inatteso.

Anni dopo capii di essere stato ‘scavato’, ‘svuotato’, per ‘contenere’ qualcos’altro, Qualcun’altro.

Ricordo poco: la visita di un sacerdote, in clergyman, un salesiano, in classe; con la scusa di alcuni test in vista della scelta dell’università. La proposta di partecipare ad una riunione nel gruppo che quello stesso sacerdote aveva costituito in città.

L’incontro, l’ascolto, il confronto con nuove persone, anche più grandi di me. L’unità che respirai, la forza che risaliva con la condivisione anche di semplici stati d’animo. E, sopratutto, la folgorazione del primo contatto con i versetti del Vangelo.

Che , da allora, mi fanno sempre lo stesso effetto (al netto di normali periodi di aridità): le parole -anche le singole parole- suscitano significati e ragionamenti ‘freschi’, profondi, ‘scoperte’. Che un po’ dovevano colpire, quando le condividevo: se è vero che, in quella comunità feci subito ‘carriera’ (il termine farà ridere i miei amici, che capiranno), ricoprendo ruoli in cui mi affidarono altri ragazzi.

Il Dio cristiano aveva fatto irruzione nella mia vita d’inconsapevole agnostico (quindi, di ‘doppiamente agnostico’): a casa divoravo i Vangeli insieme al Villari ed al Petronio, dovuti per la maturità imminente.

Ero cambiato; ero stato cambiato. Ed ero ‘riconciliato’ con tutto e con tutti: la mia carissima insegnante di Italiano (cattolica, impostazione salesiana…) lo notò subito e mi volle chiedere cosa fosse accaduto. Le mie compagne di classe (eravamo solo quattro maschi su venti alunni) percepirono il mio inedito entusiasmo: e mi rese più felice che ne fossero felici.

Dopo pochi mesi, io che a malapena parlavo, fui in grado di affrontare la mia prima trasmissione, diventando il giornalista della Radio che quella stessa comunità prese in mano e rilanciò e, poi, il giurista che la salvò dalle insidie paludose della burocrazia.

Dopo pochi mesi, iniziai a viaggiare in altre Città per parlare ad altri di Cristo: io che non mi spostavo mai più lontano dalla piazza della mia Pachino.

Fu la mia conversione.

E essa portò con sè anche la fine di tutte le mie solitudini: perchè trovai l’amore della mia vita.

Colei che, stamattina, mi ha detto: ‘esiste un solo Sebastiano Mallia’.

E’ vero: ne esiste uno solo così ed è ‘nato’ nel 1987.

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Un po’ tutto è ‘alla rinfusa’, in quel di Tuam…

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Grande clamore, da giorni, sulla vicenda dell’orfanotrofio irlandese -“nelle cui fosse settiche e fognarie” (le virgolette sono indispensabili..)- sarebbero stati rinvenuti ‘800 corpicini’ di quelli che ‘apparirebbero come feti o cadaveri di bambini piccoli’.

Il Corrierone parla di “Bimbi perduti d’Irlanda”,  e Wikipedia  ha già sentenziato che: “Era inoltre presente un istituto di suore per ragazze madri ed orfani, divenuto tristemente noto il 3 marzo 2017 per il rinvenimento di una fossa comune con all’interno circa 800 corpi di bambini.”

Sulla vicenda si è, ovviamente, aperto il libero confronto su Facebook: il tutto in funzione denigratoria di quelle ‘ipocrite’ suore irlandesi (alla Magdalene, per intenderci) che avrebbero fato abortire di nascosto ovvero fatto morire di stenti questi poveri piccini, figli di ragazze madri a loro rivoltesi.

Cosa che, in effetti, già suona poco: a che pro andare proprio per suore al fine di ‘abortire’?

E, ovviamente, il ‘disinformato medio’ da social network è assolutamente convinto che la scoperta sia avvenuta la scorsa settimana, mentre la realtà è un’altra.

La prima indagine di Catherine Corless -la donna che ha dato vita al caso- risale al 2014 e sconta un limite evidente: non si è mai avvalsa di alcuno scavo.

Alla Corless dobbiamo una sola precisa informazione: che i corpicini sepolti sarebbero 800. Informazione che la storica ricavò dai certificati di morte…redatti dalle stesse suore che avrebbero dovuto tenere -secondo la vulgata anticlericale- ‘nascosto’ un tale abominevole ‘olocausto’.

Tutto il rimanente lavoro della signora è stato, invece, un po’ confuso, per i limiti oggettivi dei mezzi usati da una persona che agì più con passione che con strumenti che, senza sua colpa (è chiaro) non poteva possedere.

Basti dire che, pur accennando -senza però mai parlare di certezza assoluta che fossero fosse settiche- su camere all’interno delle quali sarebbero stati deposti i corpi, la Corless trascurò la presenza di un cimitero nei pressi del convento (cimitero su parte quale, peraltro, vennero costruiti alcuni immobili).

Già nel 2014, a seguito delle prime interviste di Catherien Corless, la vicenda venne ridimensionata.

Ne parlano più diffusamente UCCR   e, significativamente, il più ‘laico’ ‘Bufale un tanto al chilo’ a cui rimando per i dettagli.

Il vero fatto nuovo è che, finalmente, sono stati fatti alcuni scavi dalla commissione governativa che è stata incaricata del caso ed essi hanno portato ai risultati che vengono riportati qui dallo Irish Time.

Dall’articolo (che richiama il comunicato della commissione) ricaviamo alcuni dati certi:

  1. non c’è ancora alcuna indicazione di esattamente quanti corpi sono stati scoperti nel sito.
  2. in uno scavo di prova nel mese di novembre / dicembre 2016 e nel gennaio / febbraio 2017, sono state individuate ‘due grandi strutture’.
  3. la prima struttura sembra essere un grande sistema di contenimento delle acque reflue o fossa settica che era stato dismesso e pieno di macerie e detriti e poi coperto con terreno superiore;
  4. la seconda struttura ‘è una struttura lunga che è divisa in 20 camere‘;
  5. la commissione ha detto che ‘non aveva ancora deciso quale sia lo scopo di questa struttura era ma sembrava essere un serbatoio di acque reflue’;
  6. la Commissione ‘non aveva, inoltre, ancora determinato se è stato mai utilizzato per questo scopo’;
  7. in questa seconda struttura, quantità significative di resti umani sono stati scoperti in almeno 17 delle 20 camere sotterranee che sono state esaminate”;
  8.  “un piccolo numero di resti” sono stati “recuperati a scopo di analisi”. Da questi resti è possibile risalire ad un “numero di individui la cui età di decesso varia da circa 35 settimane fetali di due o tre anni”.

Insomma: la prima struttura potrebbe essere stata un serbatoio di acque reflue (ma non è certo che si mai stata utilizzata per lo scopo).

Solo nella seconda (quella di 20 camere), sono stati trovati resti umani. Di questi resti non è assolutamente certo il numero dei corpi, ma pare assodato un chiaro elemento: si tratta di corpi dalla 35 settimana di gravidanza (nono mese) a due o tre anni.

E proprio qui pare cascare miseramente il teorema delle ‘suore abortiste’ (ed anche, per questa ragione, un po’ ‘ipocrite’): un aborto che non voglia mettere a serio rischio la vita della madre si pratica il prima possibile, non nell’imminenza del parto.

E, in ogni caso, tutto (sopratutto le 35 settimane) lascia supporre che si trattasse di nascite premature o, al più, di aborti spontanei.

Ma questa vicenda ci dice molto sul modo di assemblare i ‘fatti’ della stampa, specie nostrana: la vicenda della ‘eroica’ ricercatrice del 2014 e la sua storia, il riferimento agli 800 ‘corpicini’ (la maggior parte dei quali, peraltro, ben potrebbe essere stata sepolta nel piccolo cimitero che c’è sempre stato vicino al convento di Tuam), è stata sapientmente ‘mescolata’ con i ritrovamenti del 2017 che, come abbiamo visto (parola della Commissione governativa), di certezze ne ha ben poche ed anzi, non è in grado di confermare neanche il dato che più ha indignato e ‘scovolto’ le ‘anime belle’ di Facebook.

Che, cioè, alcuni corpi fossero stati gettati fra i liquami fognari.

‘Alla rinfusa’, insomma, come come sono state affastellati e buttati in pasto al lettore, dai nostri media, i fatti di Tuam.

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Tutto ‘ruotava’ attorno ad O.J.

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La prossima volta che mi salterà addosso l’indignazione per i plastici televisivi, le riscostruzioni di terzi, i profili ripetitivi e tutto il brunovespaio o barbaradursame che gira attorno ai ‘casi criminali irrisolti’ (o ‘più o meno risolti’) della giustizia italiana, ripenserò a American Crime Story: The People V. O. J. Simpson, e vedrò di calmarmi.

Vedere su Rai4 la serie americana sul processo all’ex campione dell’NFL, in effetti, mi ha chiaramente fatto capire da dove veniamo e dove, purtroppo, andiamo in quest’ordine di cose. Nel modo, cioè, in cui la ‘giustizia’ subisce violenza da quanto le ‘gira attorno’, nella società mediatica.

Giustamente, questa serie ha fatto incetta di nominations e premi televisivi a cavallo nel 2016: si tratta di un prodotto in cui l’accuratezza ricostruttiva ben sin combina con la bravura del cast e degli sceneggiatori e con intuizioni davvero felicissime.

Colpisce -anzitutto- la capacità della serie di ‘stare ai fatti’ con rigore nello stesso modo in cui riesce a trasmetterti chiari messaggi -non solo morali o sociali- su vari temi. E colpisce la straordinaria focalizzazione di tutti i personaggi, del modo in cui l’intera vicenda finisce per travolgerli, condizionando le loro vite.

Per The People v. O.J. Simpson, la vicenda dell’omicidio di cui egli è accusato (quello della ex moglie e del presunto amante di lei) è tuttavia un sostanziale ‘pretesto’ che, seppur ricostruito con rigore e profondità di analisi criminologica, psicologica e -sopratutto- processuale, apre uno scenario molto più intrigante ed inquietante: quello del sempre più  crescente ruolo dei media nelle vicende giudiziarie che ‘tirano’ l’attenzione della pubblica opinione.

Nel film ad episodi di FX, si coglie appieno il dramma che si sovrappone alla vicenda giudiziaria: quello del rapporto fra le forze di polizia e la comunità nera di Los Angeles (ed americana in genere). Questa ‘narrazione’ che, come detto, viene posata a mo’ di ‘coperta’ sulla ricerca delle verità dell’omicidio, è frutto di una ben precisa scelta strategica delle difesa; anzi, di una svolta strategica, quella portata dall’avvocato di colore Johnnie Cochran, arrivato solo in seguito a completare il prestigioso collegio difesivo di O.J. Simpson.

Le implicazioni razziali e sociali di un processo ad un nero famoso (per di più sposato ad una donna bianca, la vittima), finiranno col prevalere sull’atteggiamento dell’opinione pubblica verso l’imputato, fino a riversarsi sull’orientamento della giuria.

E così il ‘ragionevole dubbio’ sulla colpevolezza di O.J. non sarà dissimile dal ‘pregiudizio alla rovescia’ che la comunità nera ha visto crescere e consolidarsi per decenni: quello che i poliziotti bianchi ce l’abbiano coi ‘negri’ al punto da inventarsi accuse e persino le prove della loro colpevolezza.

Il tutto è palese, plasticamente, nell’ultima puntata: a verdetto di assoluzione acquisito, nello studio di Cochran sono in corso i festeggiamenti per la vittoria processuale; un’assistente richiama l’attenzione dell’avvocato vincitore: in TV c’è Bill Clinton (il Presidente di allora) che, con compunzione tutta liberal, sospira sulla necessità di ‘costruire più solidi legami’ fra le razze, ‘superando gli steccati’.

E’ allora che Cochran esclama: ‘abbiamo vinto!’. Questa ‘sincerità’ della lotta alle discriminazione ed ai conseguenti abusi della polizia (non va dimenticato che Los Angeles, il teatro della vicenda, era stata oggetto di rivolte a sfondo razziali qualche anno prima, a seguito dell’omicidio di Rodney King), nulla toglie tuttavia al modo in cui questa narrazione distorce, o piega la ricerca delle verità processuale.

E il messaggio ‘penetra’ nella giuria (che era rimasta ‘isolata’ dal circo mediatico attorno al caso), sulla cui formazione entrano in guerra accusa e difesa. Penetra proprio perchè i giurati vivono sulla loro pelle la continua sostituzione di ciascuno di essi, percependo che è in corso un conflitto per far sì che -nel collegio giudicante- prevalga una maggioranza di un colore di pelle rispetto all’altra. Sicchè, alla fine, le uniche due contrarie al fulmineo verdetto saranno due donne bianche.

In un processo sul quale si incistano e si innestano, come parassiti, altri ‘processi’ come questo, insomma, diventa difficile capire (ed il film lo rende magistralmente), chi… è sotto processo, essendolo persino, appunto, la giuria stessa!

Fuori dall’aula, metafora (sempre reale però) del ‘rispetto delle regole’ (affidate, tuttavia, con ammiccamento che tradisce, tuttavia, anch’esso un’sospetto razziale’, ad un giudice asiatico….) , le regole vengono brutalizzate e, appunto, tutti i protagonisti vengono processati mediaticamente.

Marcia Clark, la procuratrice dell’accusa, colpita nel suo essere donna e perseguitata dalle TV e dai giornali per una debolezza (l’aver cambiato taglio di capelli, anche qui in funzione di apparire ‘fuori dal processo’) e per un peccato di gioventù (i giornali sparano in prima pagina una sua foto nuda, fattale dal primo marito).

Ma anche, per la strana ‘par condicio’ che spesso il cinismo dei media ama seguire, con la scusa della ‘imparzialità’, Johnnie Cochran viene ‘pugnalato’ in TV dalla ex moglie, istigata dalle televisioni a raccontare, processandolo pubblicamente, l’ex marito.

Persino Lance A. Ito, il giudice che presiede il processo, viene bersagliato e preso di mira dagli spettacoli televisivi, per poi essere colpito anche lui -personalmente, nll’intimo- da una riproduzione tecnica: il nastro in cui il poliziotto razzista che esaminò per primo la scena del crimine (Mark Fuhrman, paradossalmente finito… in TV come ospite frequente di show a sfondo giudiziario), contiene alla fine pesanti epiteti dello stesso testimone contro una collega del dipartimento di Polizia di L.A., moglie del giudice, che però gli aveva tenuta nascosta la circostanza…

I piani ed i processi si sovrappongono, si mischiano a tutto detrimento della ricerca della verità. Tutti -nel tentativo di vincere- sono condizionati, manipolati, condotti ‘altrove’, tutti sono colpevoli e vittime, come O.J., di accuse che si contrappongono.

Alla lettura del verdetto, la serie riporta le vere immagini televisive del pubblico, per le strade e davanti agli schermi, ‘tracurando’ O.J.: scene di giubilo si contrappongono a quelle di rabbia, in un ‘sabba’ globale, quasi in uno scenario post-bellico in cui i ‘vincitori’ urlano in faccia ai ‘vinti’.

E così, come ha riprodotto -in diretta- la vana fuga sul ‘Bronco’ di O.J., facendo la storia degli ascolti televisivi, la gogna mediatica ‘si adegua’, ‘risarcendolo’ e riprendendo con esatta e simmetrica ‘diretta’ il suo viaggio in uscita dal carcere verso casa, verso la libertà.

Giustizia mediatica’, con tale contrappasso, è così pure ‘fatta’…

Ma la serie, nella sua asetticità consapevole e, paradossalmente, ‘solidale’ con ciascuno dei protagonisti, mantiene un piccolo -apparentemente flebile- ‘arco narrativo’: il consumarsi nell’intimo del dramma di Robert Kardashian, l’avvocato amico di O.J..

Uno dei pochi a stargli vicino. Ma ‘standogli vicino’, conoscendo tutto di O.J., incluso il suo rapporto tempestoso con la moglie uccisa, Kardashian è l’unico a rimanere dentro i fatti, dentro il processo, l’unico a vivere la ricostruzione senza tutte le implicazioni estreme ed esterne che gli sono state, più o mno artificialmente, appiccicate.

Lo può perchè è l’unico che ha a cuore la verità sul suo amico, l’unico a vivere il dipanarsi delle certezze e dei dubbi del processo nella sua coscienza (di amico, ma anche di uomo di legge, di avvocato).

Alla fine, con lo sguardo verso Marcia Clark dentro l’aula, Bob Kardashian emette il suo doloroso verdetto di colpevolezza. Ma è l’unico che non può parlare, non può ‘esternare’, non può ‘mediatizzare’ la sua posizione perchè l’amicizia glielo impedisce.

Ed è l’unico che ‘esegue’ la condanna verso O.J.: con un’altro sguardo di cui, solo per un attimo, l’insensibile amico percepisce il significato, Kardashian ‘dice addio’ ad O.J., abbandonandolo per non voler avere a che fare più nulla con lui, con quello che reputa un assassino.

Chissà se sarà stata fatta, almeno in questo modo, ‘giustizia’…

Mi piace pensarlo, non perchè sia colpevolista, ma perchè la giustizia vera sempre implica una coscienza libera, in un mondo che che non ama le coscienze nè la libertà.

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Interstellar ovvero de “l’amor che move il sole e l’altre stelle”

Una delle poche cose recuperate dal vecchio blog.

Curiosa parabola quella di Christopher Nolan. Accusato di fare films criptici, difficili da capire ad una prima visione, il nostro ha disseminato la sua ultima fatica, Interstellar, di abbondanti discorsi sulla morte.

Il primo è, certamente, l’eclatante ripetersi delle strofe di Dylan Thomas sul come “non andarsene in quella buona notte”.

Ma c’è ancora dell’altro, tanto.

La dott.ssa Brand -una perfetta Anne Hathaway- approccia lo scettico Coop -il protagonista, interpretato da Mattew McConaghy- con un alto elogio dell’amore che supera il distacco fra vivi e morti. Lo stesso Coop, prima e durante la sua lotta corpo a corpo con il dott. Mann (un inquietante Matt Damon), si vede spiegato dal primo il senso del sacrificio di un individuo per l’intera specie e varie teorie su cosa vede una persona poco prima di morire.

“Missione Lazzaro” è il nome dato alle spedizioni che approcciano i tre pianeti di un’altra galassia che i nostri eroi visitano durante il film. Alla presenza in camera di Murph, la figlia piccola del protagonista, è dato l’esplicito epiteto di “fantasma”.

Il fluire delle straordinarie partiture di uno Hans Zimmer tutto nuovo, mai sentito, è contrassegnato da un uso diffuso dell’organo: come nelle funzioni religiose, specie quelle esequiali. Ed il titolo del brano che fa da sfondo alla più epica sequenza del film è “Detach”, “distacco”, ripetutoci due volte nella stessa scena in un incastro perfetto fra momento tecnico del volo spaziale e il momento antropologico del lasciare tutto ciò che rappresentava -anche nello spazio profondo- il vivere: l’ultima relazione rimasta con l’ultimo essere umano rimasto.

Eppure, tutto il pubblico recensire del film non ha fatto neanche un accenno al tema della morte.

Certo: sarà perchè Nolan, da bravo Nolan, imbastisce il consueto e stratosferico apparecchio visivo, sia pur partendo da un prologo volutamente dimesso, stanco, sfibrato (come il pianeta e l’umanità da anni in balia della “Piaga” che sta uccidendo il cibo sulla terra). Ma è stato, certo, perchè della morte è davvero difficile parlare, anche quando te la spiattellano quasi in faccia.

Il tutto è doppiamente singolare se si pensa che questo Interstellar -oltre al classico “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick- è stato spesso raffrontato a “Gravity” del premio Oscar Alfonso Cuaron: un film, anch’esso, sulla morte e il distacco che, però, ci porta con i piedi sulla Terra solo per poterla dimenticare, la morte, per farsene -infine- una ragione.

Chris Nolan no: per lui il viaggio “circolare” di Coop è un immergersi, viceversa, nella realtà fino al punto da andarla a toccare nel profondo. Ed è un viaggio nella morte, nei suoi significati, che non può non declinarsi nel rapporto fra eternità e tempo.

Camuffata, infatti, nei paradossi temporali della relatività, nella singolarità del wormhole e del buco nero, nell’accelerazione improvvisa e drammatica delle lancette dell’orologio sul pianeta di Miller (interamente ricoperto da quel mare che simboleggia esso stesso la morte), la chiave del film sta nel rapporto fra aldiqua ed aldilà, fra il rimanere della figlia Murph e il partire del padre Coop. Nel paradosso del rapporto spazio-tempo (ma, potremmo anche dire, fra tempo e ciò che fuori dal tempo), Coop finisce con il restare sempre assieme a Murph.

E Nolan tratteggia questo scenario, all’inizio ed alla fine del film: all’inizio, Coop è il fantasma che sta dietro agli strani eventi ai quale assiste la piccola Murph e, in un paio di occasioni, lui stesso: libri che cadono, polveri raggranellate a formare un messaggio intellegibile in codice Morse. Alla fine, Coop, è immerso nella scena del tesseratto in cui il tempo è una dimensione tangibile come tutte le altre, può collocarsi davanti a ciascun momento della sua esistenza e dell’esistenza delle persone che ama (prima fra tutte, proprio Murph) per comunicare con loro.

E, ingenua ma geniale metafora dell’amore che supera il tempo e la barriera della finitezza, il modo per comunicare è la gravità, la forza che attrae i corpi gli uni verso gli altri.

“Capire come funziona” la gravità per salvare l’umanità: è la scommessa -perduta dalla sola ragione nella disperazione che si fa menzogna, prima di tutti verso sé stessi- del prof. Brand. Ma è la scommessa, vinta, dalla giovane professoressa Murphy Cooper, con un atto di fede nel “fantasma”, nel suo papà: che è tornato (o, molto più plausibilmente, è sempre stato lì in un eterno ritorno) per aiutarla, usando la stessa gravità.

“Capire come funziona” l’amore, fuori dalla metafora: sembrerebbe anche comportare, per Nolan, un atto di fede in ciò che non vediamo con i sensi, ma possiamo “sentire” solo con l’amore.

La gravità è un fine per l’umanità che deve lasciare tutta insieme una Terra irrimediabilmente compromessa per trovare la salvezza, ma la gravità è un mezzo. L’amore è il fine, ma anche il mezzo: ricorda, forse, qualcosa.

Vorrei chiuderla qui non senza aver aggiunto però tre ultimi spunti.

Il primo è Gargantua: il nome dato al buco nero “gentile”, preso dal personaggio di Rabelais per il quale i libri di un’educazione medioevale (scolastica) sono anche i maestri di vita. Dentro il mistero di quel buco nero, Coop viene catapultato in un infinito tesseratto la cui trama è la… libreria di casa sua, il suo sapere.

Il secondo, l’azzardo nolaniano: è quell’accenno -sfuggente ad ogni domanda- a quei “Loro”. Quelli che hanno collocato il wormhole vicino a Saturno. Quelli che hanno intrecciato il tesseratto. Quelli che hanno dettato a T.A.R.S. la “formula della gravità” che successivamente, Coop trasmette a Murph avvalendosi del ritmo sincopato e sempre ritornante delle lancette dell’orologio che il padre ha lasciato alla figlia.

“Chi sono ‘Loro’?“ chiede Coop al prof. Brand, senza risposta. “’Loro siamo i noi del futuro!” esclama Coop nel tesseratto. Sbagliando, forse. Perchè questi “Loro” trascendono la stessa “dimensione” dell’eternità in cui Coop si trova immerso dentro al buco nero. Ancora non li vede, non sembra “pronto”.

Non sono i noi del futuro: T.A.R.S., il robot a forma di monolite (di vera a propria lapide) che accompagna la spedizione nel viaggio interstellare, riceve da quei loro la chiave per risolvere la formula della gravità, per maneggiarne i segreti. Ma T.A.R.S. non li vede, né li fa vedere a Coop pur comunicando con essi.

E Coop riceve il messaggio da ‘Loro’ tramite T.A.R.S. : né più e né meno come li riceveva dai suoi figli mentre si trovava nello spazio profondo, ma senza vederli.

Infine, un accenno al finale: tutto lascia pensare che Coop e la figlia Murph (divenuta anziana) si rivedano in ospedale nell’esatto momento in cui lei muore. La figlia vede il padre nell’aldiqua o nell’aldilà?

Ovviamente, Nolan -more solito- non ce lo dice apertamente: ma i parenti che sono nella stanza di ospedale spariscono proprio nel momento in cui Coop si avvicina a Murph ed essi rimangono soli.

L’appuntamento fra due, che potrebbe essere immediato, viene “procrastinato” di quindici giorni senza un motivo davvero plausibile. Il luogo dove avviene -la stazione orbitante attorno a Saturno, tanto immensa da contenere una miniatura della Terra- è quasi onirico.

E, infine, Coop viene spedito dalla figlia morente a compiere l’ultima missione: “riprendere” la dottoressa Brand, rimasta da sola sul pianeta di Edmunds.

Chissà se, in fondo, è proprio questo lo step finale di questo “purgatorio” di Coop: l’ultimo recupero prima di poter incontrare coloro che, col sole, “muovono le altre stelle”.

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L’ultima yarda (Prima parte)

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Ho sempre provato una misteriosa attrazione per il football americano che, da qualche anno, è diventato il mio sport preferito.

Contrariamente al baseball -le cui regole sono difficili ed è da sempre considerato uno sport zeppo di simbolismi di natura massonica- il football è, in fondo, molto semplice: va raggiunta una meta con una palla in mano e non è consentito che un passaggio in avanti per arrivarci.

Riflettendo un po’ su tutto (lo confesso, è il mio più grave difetto) mi è capitato di farlo anche su questo sport. E sono arrivato ad una conclusione: è una metafora molto completa della vita, di come essa si svolge, e dei ruoli che -nell’esistenza- possono giocare tanti fattori.

La vita è fatta di tentativi

Anzitutto: il gioco d’attacco è scandito da quattro ‘downs’. In realtà, se ne usano solo tre per guadagnare le 10 yards che ti servono per avere diritto ad altri quattro tentativi, ma il quarto è usato per passare dall’attacco alla difesa, spostando l’avversario il più lontano possibile dalla propria linea di meta con un calcio.

I tentativi, quindi, sono tre (il quarto può essere usato in casi disperati ovvero per gusto del rischio): e, nell’esistenza, spesso avviene questo, che non ti basti un solo tentativo per realizzare un obiettivo o, semplicemente, per mettere su un piccolo mattone su cui costruirlo.

La vita va costruita piano piano, scandita da passaggi precisi.

Nel football, questo implica un gioco paziente di corse con la palla in mano, in cui il running back cerca un varco nella linea difensiva della squadra avversaria, spesso cocciando duro contro di essa, senza guadagnare nulla.

A volte, le 10 yards si costruiscono così: tre o quattro alla volta, con ognuno dei tre tentativi.

Nella vita si può e si deve rischiare

Ma, ed è il lato spettacolare, il gioco è libero di svilupparsi, di affidarsi a quella sola possibilità, per ogni tentativo, di lanciare la palla avanti verso i ricevitori.

Mettere l’ovale per aria significa rischiare, perchè non lo tieni saldo in mano e lo puoi sempre vedere intercettato dagli avversari.

Ma dal rischio nascono i grandi guadagni (si chiamano così!) di yards, i giochi che spezzano una partita.

Ma una delle azioni più belle di questo sport combina insieme la fatica delle piccole corse, degli schianti contro la linea di difesa, con i grandi lanci: si chiamano play actions.

E si costruiscono così: più una squadra sa correre, costruire pazientemente, yard dopo yard il proprio cammino (drive) verso la meta, più l’avversario diventa impreparato verso la sopresa del lancio in avanti. E allora il quarterback (l’uomo a cui sono affidati i lanci in avanti), in questi casi, finta di dare al palla al running back, il quale a sua volta finta di correrla tenendola fra le braccia; in realtà il lanciatore la mantiene e, subito dopo, spara in avanti.

Tutta la difesa attende il corridore concentrata sulla linea fra attacco e difesa (la linea di scrimmage), ma l’ovale parte in avanti dove le coperture si trovano decimate e dove capita così più facilmente di trovare l’uomo libero.

Il gioco però, come detto, riesce solo se hai saputo consolidare, rendere credibile un serio gioco di corsa: i grandi guadagni si costruicono spesso, insomma, con i piccoli gruzzoli e con la credibilità che ti sei costruito a poco a poco.

Così rischiare conviene…

Ma rischiare è, a volte, un dovere…

Come tutte le buone metafore, questa è completa: quando sei con le spalle al muro e devi recuperare, e non hai più tempo (il tempo, altro aspetto intrigante del gioco, è fondamentale), sei costretto a lanciare sempre per ‘mangiarti’ il campo ed arrivare in meta nel minor tempo possibile.

Nella vita, capita proprio così: ci sono tempi in cui conservare non serve, e bisogna correre contro il tempo e contro le avversità, senza troppi calcoli…

Ma, spesso, rischiare … aiuta anche a ‘conservare’: nel gioco, chi sa correre bene, talvolta prova a lanciare lunghissimo così, all’improvviso.

Questo serve sempre: se il lancio va a buon fine, si guadagnano tante yards. Ma se non va a buon fine (è incompleto), va bene lo stesso: sarà infatti servito a tenere ‘onesta’ la difesa avversaria.

In pratica, cioè, gli avversari saranno costretti a non concentrarsi troppo sul tuo gioco di corsa, mantenendo uomini sulla linea, ma -temendo i lanci- dovranno spostarne qualcuno dietro. E così il tuo gioco di piccoli guiadagni troverà giovamento da un rischio ben calcolato.

Per oggi potrà bastare: ma la metafora-football è molto più ricca di messaggi e significati; ci vorrà qualche altro passaggio per scoprirli.

 

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Una croce senza un braccio

Terremoto Accumoli

Questa è un’ipotetica lettera scritta ad un ipotetico pastore da un ipotetico fedele ‘cattolico convenzionale’….

Caro Pastore,

vorrei anzitutto ringraziarti poichè, volendoti ‘fare vicino’, sei venuto a visitare la nostra comunità; peccato che, probabilmente, non avrai potuto sentire il nostro vero odore, l’odore delle pecore a te affidate di questo lembo di terra, perchè -per accoglierti degnamente- ci siam vestiti a festa e, appunto, profumati.

E’, sai, per quell’interpretazione -che presto sarà rigettata- del brano in cui la peccatrice ha versato un costoso profumo sui piedi di Gesù (quella per cui ‘i poveri li avrete sempre con voi’, ecc.) e per quell’altro brano di Vangelo in cui ci dici che dallo Sposo bisogna andare vestiti bene, vestiti dell’abito della festa.

Sai, non siamo aggiornati (ecco perchè abbiamo te): un giorno scopriremo che questi passaggi evangelici sono frutto di interpolazioni, divinizzazioni abusive della figura umana di Gesù, operate dalle comunità successive, aggiunte medioevali e chissà di quali altre stronzate che hanno, però, tradito il messaggio originario. Ma, per ora, siamo stati ‘insegnati’ così e, quindi, ci siamo puliti, profumati ed agghindati per accoglierti, pensando tu rappresentassi -in quella sede liturgica-  quel Cristo che non rifiutò certi doni.

Ma non importa: non è questo il punto.

Il punto è quello che hai detto oggi nel tuo discorso a tutti noi.

Forse innervosito dal fatto che alcuni, pensando di farti piacere, abbiamo fatto cantare ai bambini una canzone che tu (forse) non ami cantare -men che meno (forse) durante le tue omelie- e che tu (che appunto, forse notoriamente, non le canti in tali contesti) hai definito un ‘abuso liturgico’; ecco, dicevo, forse innervosito da questo ‘abuso’ ci hai voluto andare giù duro con noi (che ce lo meritiamo, è chiaro!).

Un po’ come fa con voi, in pratica, l’oggi regnante Pastore di voi Pastori: vi rampogna spesso e  tanto. E tu, seguendo l’esempio, giustamente rampogni noi. In una gioiosa e misericordiosa cascata di rampogne.

Ma cosa ci hai detto? Su cosa hai invitato me e le altre pecore profumate a riflettere?

Sulla differenza che c’è fra un ‘cattolico convenzionale’ e un vero cristiano.

Confesso che, sulle prime, non riuscivo a seguirti, non capendo cosa davvero volessi dire per ‘cattolico convenzionale’. A quale ‘convenzione’ ti stavi riferendo?

Al ‘cattolico convenzionale’ ben rappresentato dalla classica vecchietta orante rosari e giaculatorie, ovvero a quell’altra tipologia di ‘cattolico convenzionale’, nato dall’esperienza post-conciliare, le cui ‘convenzioni’ sono impregnate dell’impegno pastorale-psico-pedagogico-socio-politico, fatte di condivisione dei ‘valori’ del mondo con il mondo? Insomma, ‘convenzioni’ impregnate di rosari ‘altri’ snocciolanti non invocazioni, ma peana orizzontali; e di giaculatorie -anch’esse ‘altre’- invocanti i nuovi ‘santi perseguitati’, le star della teologia contemporanea?

Non capivo, insomma, ma sei subito stato chiaro: ce l’avevi con chi prega e basta.

Con i ‘cattolici convenzionali’ che non sono cristiani, hai detto; perchè si può essere cattolici senza essere cristiani, hai detto.

Questi discorsi li ho sentiti di recente, non sono nuovi: trent’anni fa, quando fui preso per i capelli da matricola universitaria e spostato dal mio ateismo nichilista e privo di un senso per il vivere, iniziai ad orecchiarli in qualche sacrestia: ‘inutile pregare se non fai del bene!’, dicevano arrabbiati, pure nelle omelie, altri pastori come te.

‘Purtroppo’, nel frattempo, qualcuno ci faceva pure pregare. E, mentre pregavamo, c’impegnavamo per il prossimo; e mentre c’impegnavamo, pregavamo. E diventava dura capire quando pregavamo e quando c’impegnavamo essendo le due cose ormai fuse.

Eravamo ragazzi: potevamo perdere tempo con questa ‘cosa’ della preghiera.

Ma, buttati nel mondo degli adulti, nel lavoro, nella famiglia, nella società, l’impegno è rimasto e la preghiera ha cominciato a scarseggiare: viviamo, forse, ancora ‘di rendita’ per le preghiere di allora.

Saebbe un bene, però, stando a quanto oggi hai gridato dal pulpito, rivolto perentoriamente ai ‘cattolici convenzionali’.

Ci hai, oggi, plasticamente fatto provare cosa significa ‘pregare e basta’: hai iniziato a recitare l’Ave Maria – a mo’ di consueta (o ‘consuetudinaria’) cantilena- e, visto che nessuno ti seguiva, hai invitato noi pecore a ripeterla con te. Ti hanno risposto sopratutto i bambini, ti hanno seguito, cantilenando ‘convenzionalmente’ anche loro, come in un gioco.

Non potevano capire, piccoli come sono, però, cosa volevi ‘insegnarci’, come volevi ‘educarci’ ad andare ‘oltre le convenzioni’.

Ti dev’essere piaciuto, tant’è che poi lo hai rifatto col Padre Nostro: anche lì tu e gli ‘educandi’ avete ‘cantilenato’ la preghiera che Cristo stesso ci ha insegnato. La preghiera che Cristo stesso ci ha insegnato…

Alla fine, hai invitato il tuo popolo a fare l’ultimo sforzo con la preghiera all’angelo custode, forse perchè fosse ‘più chiaro’ il ridicolo di cui ci copriamo ‘pregando’.

Non prima di aver sospirato sarcasticamente che, forse, gli angeli custodi dei terremotati del Centro Italia erano ‘distratti’ quando i loro ‘protetti’ sono morti. Così come -sarcasticamente- te la sei presa con quelli che pregano l’Onnipotente perchè le scosse si fermino.

Dev’essere stato interpolato, ho pensato, o brutalizzato da divinizzazioni abusive di Gesù o da aggiunte medioevali e chissà da quali altre stronzate, anche il Vangelo della risurrezione di Lazzaro: Gesù non deve aver pregato il Padre per farlo tornare in vita, ma deve essersi rivolto alla protezone civile di Betania e, arrivato, lì, deve essere riuscito a riprenderlo dopo qualche massaggio cardiaco e qualche respirazione.

E’ così che è andata, certo: che mai è questa storia delle preghiere che risuscitano i morti (per di più ‘perchè alcuni sì alcuni no’, e ‘Dio era girato dall’altra parte quando è morto Saul di Cafanao’, ecc.).

Io non ho cantilenato le preghiere, io ho capito subito: te l’ho detto, li avevo sentiti da tempo certi discorsi. I discorsi, come il tuo, che contrappongono alla preghiera l’impegno, quasi fossero l’uno l’opposto dell’altro.Quasi che, come hai insinuato (anzi, come hai detto a chiare lettere), la prima fosse roba da ‘cattolici convenzionali’ e il secondo merito cristallino dei ‘veri cristiani’.

I discorsi che hanno reso la Chiesa cattolica, insomma, questo luogo triste, insopportabile, nel quale i paladini dell’impegno, della carità e della ‘misericordia caso per caso’, si impalcano a giudicare quelli che pregano e credono (senza pensare che è l’unica cosa che possono fare per tenere in piedi dignitosamente il loro quotidiano).

A proposito di terremoto: c’è una foto famosa, te la posto qua sopra, che riprende il ‘Crocifisso di Accumoli’.

Lo vedi il povero Cristo penzolante, precario: sta attaccato solo a due bracci verticali della croce. Quello che prima era il braccio orizzontale, staccatosi da quallo verticale, è cascato verso il suolo ed è diventato verticale, è sparita la sua orizzontalità.

Il braccio verticale sta a rappresentare l’anelito dell’uomo verso il divino, la preghiera, diciamo…

Quello orizzontale l’impegno, l’abbraccio del Cristo che ci tocca ad uno ad uno, tutti.

Lo vedi che fine ha fatto, staccatosi, dal braccio verticale, quello orizzontale? Sta per finire per terra. Ma solo Cristo lo tiene attaccato all’altro.

Non ti dice niente? Non mi sorprenderebbe!

Quanto accade non ci ‘dice’ più niente, a me a te, a tutti quelli che eravamo presenti oggi a sentirti. Da tempo.

Eppure una cosa me l’ha detta e ribadita: che senza la preghiera (il braccio verticale), quel che rimane è un pezzo di legno (orizzontale, certo, ma perchè buttato per terra), che non tutti sono tenuti a vedere, e che ognuno può pestare e scalciare.

Un pezzo di legno, insomma, come tutti gli altri.

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Appunti per una (azzardata) teologia del Cavaliere Oscuro #1 ‘Io ho una sola regola’

inettrogation

Una premessa

Come ho gà scritto, il vecchio blog -peraltro, il secondo Labre- è saltato.

Con questo si sono volatilizzati i miei lunghi articoli sulla c.d. ‘Trilogia del Cavaliere Oscuro’, i tre films che Christopher Nolan ha dedicato a Batman.

Due pezzi che avevano avuto un certo successo, sfiorando la pubblicazione in un giornale.

Naturalmente è impossibile riproporli qui per intero.

Ma, oggi, un’idea: perchè non sezionare l’analisi, dedicando qualche riflessione ad un aspetto dei tre film (scena, personaggio, messaggio, ecc.)?

E così mi sono deciso; oggi iniziamo da quella che molti considerano la scena più famosa dei tre films: quella del cosiddetto interrogatorio di Joker, nella cella del commissariato di Gotham, questa…

 

Le ‘tentazioni’ di Gordon

Come scrissi un tempo, Joker è un’entità difficilmente assimilabile all’umano. Certamente -anche per riprendere  una delle teorie di quei post perduti- la caratterizzazione del clown merita un discorso a parte.

L’inizio della scena lo dimostra: l’oscurità della cella quando entra Gordon -funzionale a ‘nascondere’ Batman- è un’allegoria del confronto fra un semplice uomo e questa entità oscura e malvagia.

Gordon, che entra nel buio in cui l’unica cosa visibile non è Joker, ma la sua maschera, è ‘investito’ subito dal sarcasmo del detenuto (‘buonasera, “commissario”!’), per poi essere sprofondato dal suo misterioso interlocutore in un discorso disperante: il poliziotto non può fidarsi di nessuno, nessuno è suo, con lui, perchè due agenti della sua unità hanno rapito Harvey Dent e Rachel Dawes.

Gordon, partito per interrogare, fa la parte dell’interrogato: da una falsa coscienza, che vorrebbe trascinarlo nel vuoto senso di colpa, della inutilità di ogni sua azione contro il male.

Ma Gordon ‘sa’ che non è solo, dentro quella stanza, con il male che lo tormenta.

Lì con lui c’è il suo amico e, con il sorriso, ‘toglie le manette’ al clown: un gesto insensato, ma che assume subito un significato quando egli esce dalla stanza.

Un gioco di ‘luci’

Subito si accendono le luci della cella.

Vediamo Joker abbagliato.

Ma, a Nolan, evidentemente, non basta per rendere l’idea dello ‘stacco’ fra il primo confronto del criminale con il secondo: così gli fa afferrare la testa da Batman, il quale gliela schianta sul tavolo.

Joker, con la battuta che segue, incassa benissimo: e questo è totalmente ‘sospetto’.

Ma, come si vedrà anche in seguito, coplito ripetutamente da un Batman infuriato, Joker non prova il dolore fisico.

I colpi, quindi, segnano uno stacco netto.

La scena, quindi, s’illumina e inizia il confronto fra i due nemici su un piano che è totalmente diverso: Batman sa che Joker vuole vederlo.

E’ uno dei passaggi più misteriosi di tutta la sceneggiatura: ma assume un senso se si ipotizza che, fra i due, il confronto avviene su un piano che non è quello umano, a parlare sono due ‘simboli’, due ‘concetti’, due ‘entità’ opposte l’una all’altra di cui una -Batman- è almeno parzialmente umana (Bruce Wayne).

E, infatti, il tono della discussione s’eleva all’improvviso.

‘Tu completi me’

Joker ancora non ‘afferra bene’ Batman: quindi, inizia con la sua parte umana, proprio come con Gordon: cerca, cioè, di instillare in lui il senso di colpa per le cinque persone uccise dal clown (Joker aveva minacciato di uccidere una persona ogni giorno fin tanto che Batman non avesse rivelato la sua identità).

Ma non funziona: il Cavaliere Oscuro ‘non dialoga’ su questo con la sua controparte. Va al sodo, e chiede dov’è Dent.

Allora Joker cambia subito registro: e insinua la lusinga, l’adulazione ‘tu hai cambiato tutto’, ‘non si torna indietro’.

Ma, neanche qui, Batman abbocca: lui sa della taglia della mafia e che Joker si è offerto di ucciderlo.

Aprendo una parentesi, c’è una parte del film (quella in cui Bruce, tolta la maschera, stanco e distrutto dalla morte di Rachel, si è buttato sulla poltrona  nel suo attico), in cui l’eroe (o, meglio, la sua parte umana) si arrovella sulle insinuazioni del Joker (‘Io dovevo ispirare il bene e guarda cosa ho fatto!’, dice ad Alfred); questo laddove l’uomo con la maschera addosso, il simbolo, è incorruttibile: non a caso, Alfred, per farlo riprendere gli rimette la maschera in mano dicendogli che Gotham dovrà ‘accontentarsi’ di Batman…

Il simbolo è, quindi, incorruttibile, resiste anche a questa tentazione.

Nel frattempo, il trucco con cui è coperta la faccia del pagliaccio si va sciogliendo, Joker perde la sua, di maschera….

Joker, allora, compreso e riconociuto che questo è il vero confronto ‘fra pari’ (almeno così pensa lui. ‘Tu completi me!’), si svela: la sua è una sfida all’umanità che egli odia e considera inferiore, inaffidabile: ‘Queste persone… la loro moralità è uno stupido scherzo!’.

E dice a Batman che lui sarà rigettato e rifiutato proprio per questa inaffidabilità degli uomini: punta, insomma, a scoraggiarlo nella sua missione.

Alla fine, dice di essere ‘in anticipo sul percorso’: un percorso nichilista, in cui nulla conta, tutto il bene è una finzione, una convenzione falsa, che non resiste alle prove dell’esistenza, ragion per cui lui si è disfatto delle regole, degli imperativi morali (dirà che ‘l’unico modo sensato di vivere è senza regole’).

‘Io ho una sola regola’

Batman lo riporta al tema; e anche qui, Nolan, produce uno stacco nettissimo: da seduti i due si alzano (o, meglio, Batman si alza per afferrare dal bavero Joker).

Joker ha capito che non funziona niente e allora si sfoga: ‘tu hai tutte le tue regole e pensi che ti salveranno!’

Batman risponde secco e fulminante: ‘Io ho una sola regola’ (non uccidere, lo sanno coloro che conoscono la mitologia del Cavaliere Oscuro, lo renderà chiaro dopo Joker palesando il dilemma se salvare Dent o Rachel).

Quello che segue dopo è il dilemma morale di cui parlavamo: non riuscire a salvare una vita significa uccidere?

Certo che no, Batman lo sa: ma è Bruce a fare la scelta di chi salvare, e la sua parte umana è ingannata da Joker, che lo spedisce a prendere Dent invece di Rachel.

Ma non è questo a colpire.

Colpisce che basti ‘avere una sola regola’ e che questa riesca a salvarci.

‘Non uccidere’ invero è la regola delle regole: è il rispetto ultimo della vita, la sua intangibilità, il capire che -così come non ci appartiene la vita altrui, che non possiamo disporne- non ci appartiene la nostra; è questo ciò che ‘forma’ un simbolo potente quanto elementare come Batman.

E’ un confine tracciato, un limite invalicabile. Uno solo: ma se lo rispetti, se ne rispetti il senso profondo, cogliendone tutti i significati, ‘non uccidere’ può diventare il canovaccio di una vita retta e pulita, implicando il rispetto dovuto all’altro, la sua dignità insuperabile vista allo specchio.

‘Io non ti ucciderò’

Alla fine del film, appeso sul vuoto e in trappola: Joker dice a Batman che non lo ucciderà perchè ‘è troppo divertente’.

Lo diverte sfidarlo, certo: ma, alla fine, si sottometterà anche lui, a suo modo, alla regola.

Lui non ucciderà mai Batman, perchè non può farlo.

Joker -nella scena finale del povero Ledger- è in trappola, appeso all’unica corda e trattenuto da Batman: pensa di aver vinto, perchè ha ‘abbassato’ Harvey Dent al livello della sua corruzione, di una corruzione in cui nulla ha un senso.

Ma ha perso lui, Joker: perchè pende sull’abisso senza poterci mai cadere, da una corda tenuta con mano salda dal bene.

 

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Una ripresa…

Un bel giorno, il mio blog è sparito.

La piattaforma su cui si trovava ha avuto grossi problemi proprio a cavallo del rinnovo annuale e i post si sono volatilizzati con il loro carico di idee, intuizioni ed emozioni.

Saranno da qualche parte, fra gli anfratti della rete; e mi piace pensare che stanno lì, come fra le pieghe di una memoria umana, riposti senza che alcuno possa più rievocarli.

Non so se sia un bene.

So solo che sta capitando troppo spesso di affidare a ‘supporti’ esterni quello che ci appartiene, nell’illusione che questi ‘spazi’ possano conservarlo per sempre al posto della nostra memoria.

E’ uno dei risultati della libertà di espressione che, come tutte le libertà, comporta dei rischi.

In fondo, ci esprimiamo per consegnare ad altri un nostro contributo, pretendendo che esso possa aiutare o semplicemente sorprendere il prossimo. Ciò che pensiamo va fuori di noi, laddove -un poco- dovremmo saperlo trattenere, tenerlo un po’ per noi.

In altre parole: mai epoca come questa potè dirsi affetta, fino al parossismo, di una sua spontaneità di comunicazione che, spesso, non… comunica quello che davvero pensiamo, perchè… non lo abbiamo ‘pensato’ abbastanza.

Nell’era dei social network (che si è sostituita come un predatore a quella della scrittura on line e dei blogs in particolare) non si riflette, non si trattengono le idee, le suggestioni, le reazioni in modo che davvero si possa dire che sono state nostre, che le abbiamo tenute dentro quel tanto che basta affinchè potessero realmente rappresentarci.

Spesso sorprendo me stesso e tanti altri a difendere concetti, nei commenti, in cui -dopo infinite interazioni- dopo giorni mi rendo conto di essermi espresso male, di avere scritto qualcosa che l’altro ben ha potuto interpretare in modo opposto o comunque divergente da quanto io davvero intendessi.

La comunicazione, insomma, può ‘fregare’, può ‘defraudare’ le idee e le convizioni.

Come, d’altra parte, la comunicazione riesce spesso nell’intento di ‘defraudare’ persino i fatti della loro effettiva portata e del loro significato più profondo.

Riprendere, quindi, lasciando andare un ‘lavoro perduto’, significherà cogliere un’occasione: quella di rimeditare cose già scritte, per riportarle ‘fuori’ in modo diverso.

Imparando così a proporre meglio ‘cose’ un po’ più nuove.

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