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‘Un giorno in Pretura’? Il processo e il fatto mediatico

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Nella stimolante ed utilissima tre giorni che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siracusa ha organizzato a Noto, settimane fa, ho subito puntato il seminario sui ‘limiti e l’utilità’ del c.d. ‘processo mediatico’.

Non me ne sono pentito: chiaramente il giudizio di noi tecnici sulla progressiva ‘uscita dalle aule’ del processo (specie penale) si è rivelato ricchissimo di sfumature negative.

Non ne riferirò qui.

Lascio quindi in sospeso il dilemma -professionale e umano- dell’avvocato che si trova a doversi occupare di un dibattimento (già da prima, sin dalle indagini) che viene svolto in più contesti estranei alla sede processuale ufficiale: rimanere in Aula -laddove si forma o si dovrebbe formare ciò che conta davvero ai fini della decisione- ovvero inseguire i mirrors mediatici del caso, presenziando a dibattiti televisivi, ricostruzioni, interviste e rotocalchi che dovessero occuparsene? Dilemma di non poco momento: il magistrato presente al seminario ha -molto onestamente- chiarito che, in quanto uomo del secoolo che viviamo, difficilmente può rimanere del tutto indifferente a quanto si forma -in termini di tesi, opinioni ed interpretazioni- ‘fuori’ dall’aula, pur cercando, per quanto possibile di ‘starci dentro’ con ogni mezzo…

Mi interessava una domanda che, a un certo punto, ha fatto capolino: perchè i media si sono -di fatto- negli ultimi anni ‘impadroniti’ del processo, applicando le loro leggi spietate nella ricostruzione di una verità (anzi, di più ‘verità’) sul fatto delittuoso?

Mi sembra di poter dire qualcosa che stia nei termini dello scopo di questo blog: di fatto, il processo mediatico è fenomeno che fa uscire dai confini, da quella che dovrebbe essere una ‘safe house’, l’aula giudiziaria, ciò che -per motivi di rigore nel metodo e nell’indagine- dovrebbe rimanervi custodito gelosamente.

Eccoci dunque.

Il processo come ‘fatto mediatico’

Nel considerare l’osmosi fra il processo e la sua riproduzione nei media si dimentica -ed a Noto è accaduto- che il processo stesso (civile, penale amministrativo, poco importa) è un ‘fatto mediatico’.

Basti pensare al procedimento penale. esso prende le mosse da quella che, con termine assolutamente illuminante, viene chiamata ‘notizia di reato’…

Quest’ultima è il racconto di un fatto del quale si afferma il disvalore rispetto alla norma penale: e ogni racconto è già un fatto mediatico, una ‘narrazione’ che -peraltro- risulta già caricata di considerazioni sull’ethos, sul disvalore, nel momento in cui nasce e viene portata a conoscenza di chi deve dapprima indagare.

Quest’ultimo acquisisce, a sua volta altre notizie, elabora tesi, raccoglie elementi che rimanda… mediaticamente, con la comunicazione al giudice inquirente il quale, alla fine, tira le somme e formula un capo d’imputazione (ovvero una richiesta di archiviazione) che esprimono un giudizio sulla notizia e sul suo potenziale disvalore rispetto alla norma penale.

Come se non bastasse tutto questo, ai fini della decisione e della ricostruzione della verità su quel fatto, è previsto un passaggio dibattimentale nel quale -anche a colpi di notizie e di altrettante comunicazioni dalla fortissima connotazione mediatica- si scontrano più ricostruzioni (quelle dei testimoni, quelle degli avvocati e della pubblica accusa, quelal dei periti…).

Alla fine, il tutto viene chiuso -ancora una volta- da un dictum, la sentenza, che è anch’essa una narrazione, un ricostruzione, riportata sulla carta: uno dei più antichi medium conosciuti dall’umanità…

Facile -dunque- che il processo mediatico si ‘sovrapponga’ a quello giudiziario, cannibalizzandolo: entrambi ne condividono, per centi versi, l’essenza…

Due ‘seti deviate’: verità e giustizia

Il ‘successo’ del processo mediatico, il suo far breccia nell’audience sta anche in quanto si trova inscritto nell’animo umano: la sete di verità e quella di giustizia.

Inutile negarlo: posto un fatto, conosciutolo più o meno profondamente, l’essere umano si forma un giudizio sullo stesso che parte, anzitutto, dalla volontà di conoscerne la corrispondenza al vero.

Il ‘successo’ sta proprio in questo che, la capacità di avvincere del racconto sta anche, se non sopratutto, nel fatto che lo stesso sollecita in chi ne viene a conoscenza un giudizio morale sullo stesso e su chi lo ha commesso (e, en passant, anche sulla presunta vittima).

Ciò -ovviamente- ci dice qualcosa che già sappiamo, cristianamente, sull’essere umano, sulla sua sete di verità e giustizia.

Tuttavia, c’è il rovescio, la distorsione sulla quale i media sguazzano: nella percezione del racconto dell’evento delittuoso e dei particolari, anche di contorno, il ‘discente mediatico’ è portato ad appassionarsi anche nella misura in cui si fa un po’ avvocato ed un po’ giudice del fatto.

Anche qui con un mischiarsi dei ruoli, oltre che dei piani…

Tale aspetto è drammaticamente esploso con i social networks, nei quali il tot capita, tot sententiae è diventato la regola.

Ma -anche qui- siamo sul piano dell’inevitabile: il processo (specie quello penale) è pubblico e, anche dai vecchi film, è possibile ammettere che una siffatta ‘partecipazione’ di estranei al processo fosse già presente ben prima che nascesse quello che oggi chiamiamo ‘processo mediatico’.

‘Un giorno in Pretura’ e poi subito fuori!

Ovviamente, in quel seminario netino, non poteva mancare l’accenno all’antesignano, al bisnonno di ogni ‘processualità mediatica’ italica: la nota trasmissione di RAI TRE ‘Un giorno in Pretura’.

I Colleghi più giovani ne parlavano bene e li comprendo: in effetti la struttura della trasmissione prevede i filmati presi dall’Aula, riportanti il processo ‘vero’. Da qui l’aura di ‘ufficilialità’, di ‘autorevolezza’ che quel programma ha sempre avuto.

Tuttavia, io non ne sarei così entusiasta: come ogni prodotto televisivo (e, prima ancora, giornalistico) la ‘mediazione’ del mezzo si vede ed è pesante.

Già nel rimaneggiare, stringendo all’osso per i ben comprensibili motivi di tempo, il materiale ripreso durante il dibattimento, assistiamo ad una distorsione: non tutto ciò che avviene nel processo è riportato e c’è sempre lo zampino di chi ha deciso quali parti riportare e quali altre no.

Inoltre, è invalso l’uso di intervallare i pezzi del dibattimento con aggiunta da studio (interviste all’imputato, agli avvocati ecc): e già questa è una commistione dei piani (processuale e mediatico) tutta da valutare.

E, per quanto ‘imparziali’ siano le testate giornalistiche, per quanto ancora -ingenuamente- possiamo credere che esse lo siano, questa ‘verità processuale’ resterà, con questi sistemi, sempre parziale e condizionata.

Non solo. Il fatto che essa appaia la ‘verità formatasi nel processo’ è doppiamente pericoloso per l’utente mediatico. Come detto, egli si forma un giudizio in base a ciò che vede, come è stato ben detto a Noto, e la sentenza finale non lo scalfirà più di tanto.

Se possibile, andrà ancora peggio: il giudizio dell’utente televisivo si estenderà non solo all’imputato ed alla vittima, ma ai rispettivi avvocati, al Pubblico Ministero e, paradosso finale, anche al Decidente.

Cosicchè, alla sbarra dell’Aula-Studio televisiva, a turno, saranno portati un po’ tutti i protagonisti del processo vero; pronti tutti a diventare imputati nel processo di formazione della ‘verità generale’ che i media, senza argine alcuno, vorranno diffondere.

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‘Suggestioni pessimiste’ : una presentazione

Periodicamente, sono assalito da pensieri, collegabili a previsioni contenute nella Scrittura a proposito di come il mondo potrebbe finire.

Prima di cambiare pagina e catalogarmi come un pazzo ed un visionario, vi prego di leggere quanto segue.

So da me che il campo in cui mi avventuro, in questi frangenti, è pesantemente minato, scivoloso, azzardato: ho sempre presente l’ammonimento del Cristo, secondo il quale non spetta a noi conoscere ‘quando accadranno queste cose’ (Matteo, 24, 36).

Di più: ha detto di non saperlo neanche il Figlio in quanto cosa ‘riservata’ al Padre. Il che è tutto dire!

Tuttavia, quello stesso Cristo che così ammoniva e metteva in guardia da avventati vaticini, lasciò ‘indizi’ chiari, tutti riportati dai Vangeli, del sopravvenire delle fine del tempo: a cominciare da quelli contenuti nei versetti che precedono il predetto ammonimento.

Con un intento solo ‘pedagogico’ (aiutarci a stare ‘pronti’ per ogni ora, a cominciare dalla propria)? Può darsi: ma, se ciò è verità fino in fondo, ci deve essere dell’altro e questo ‘altro’ va collocato nella storia umana.

A questa ‘ambiguità’ (peraltro apparente) dei Vangeli si aggiungono altre azioni ‘frenanti’ rispetto a previsioni e azzardi ‘lanci’: la cautela della Chiesa ed il suo opporsi con forza decisa ad ogni millenarismo.

Più personalmente (e affettivamente) un fatto della carriera del mio più forte e seguito ispiratore: Vittorio Messori.

Il quale dedicò un intero libro -per me il più caro dei suoi- al mistero della Morte ‘promettendo’ in quel testo che un altro ne sarebbe seguito proprio in ordine alla morte non più del singolo, ma del tempo, della storia stessi.

Promessa mai mantenuta: troppo scivoloso, appunto, infido, meritevole di attenzioni supreme un campo, come quello apocalittico, così ‘segnato’ dall’ammonimento di Gesù.

Dunque ‘calma e gesso’ sono messi ampiamente nel conto di questa mia decisione.

Che accompagno ad un duplice invito: ciò che pubblico sotto il titolo di ‘Suggestioni pessimiste’ va preso per quello che è; un insieme di suggestioni, appunto, che come tali anzitutto vanno trattate, senza alcuna pretesa di ‘scientificità’.

Il secondo invito: le suggestioni sono definite ‘pessimiste’ perchè richiamano -in vari modi- l’idea di una fine; tuttavia sono io stesso a definirle così: un po’ perchè al cristiano non è concessa una visione catastrofica, perchè la storia è già redenta ed il suo sbocco è la venuta definitiva di Colui che l’ha riscattata; un po’ perchè va lasciato (ed io stesso mi lascio) uno spazio: quello della libertà che genera l’imprevisto e l’imprevedibile e, con essi, apre il cuore umano sempre alla speranza.

Con queste premesse (credetemi, non spiegate solo per accreditarmi come un soggetto sano di mente), vanno lette e giudicate le mie ‘suggestioni pessimiste’.

 

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Finirà il ‘come’ per uccidere il ‘cosa’?

mal e il treno

I’ll tell you a riddle. You’re waiting for a train. A train that will take you far away. You know where you hope this train will take you; but you don’t know for sure. But it doesn’t matter. How can it not matter to you where that train will take you? 

Mi torna in mente, in questi giorni, un ricordo giovanile, forse dell’inizio degli anni ’90.

Nella sede locale del movimento a cui appartenevo, davanti ad una piccola assemblea, si discuteva di catechismo e, per la precisione, della -ormai- incancrenita tendenza dei ragazzi ad abbandonare la Chiesa dopo la cresima.

Anche lì è stato coniato un termine in cui si utilizza il prefisso ‘post’: e, come per il suo più diffuso ‘cugino’ (il post-moderno) il post-cresima pare indicare una certa terra di nessuno, un incomprensibile tratto di un’epoca (lì storica, qui della vita spirituale del battezzato) che non si sa bene come prendere, come inquadrare.

E’ un ‘post’, un ‘dopo’ e basta…

Il ricordo è di una frase -neanche troppo originale- che dissi: ‘bisogna trovare modi nuovi per diffondere la fede, un nuovo linguaggio’. Frase (quando la pronunciai) in voga da almeno da trent’anni; e che lo è ancora, trascorsi che sono quasi altri trenta; così come accade per quell’altra frase che spesso faceva capolino in certe discussioni: ‘bisogna superare, nella catechesi, il nozionismo’.

L’aneddoto ci dice che, per questa cosa ‘fondamentale’ che è la trasmissione della fede, ormai -da quasi sessant’anni- sembriamo immersi in un loop temporale, nel solco di un disco rotto che ripete sempre lo stesso ritornello.

Che ci dibattiamo, anzi ci dimeniamo, dal 1966 in un’interminabile discussione sul ‘come’ trasmettere la fede, sul ‘come’ tramandarla, sul ‘come’ accendere i cuori. Come se ad accenderli dovesse essere il ‘come’ e non il ‘cosa’ trasmettere o tramandare.

E’ come se una notizia avesse più valenza non per il fatto che descrive, ma per il mezzo con cui viene propalata.

Sta di fatto che, da quando ci si è impantanati sul ‘come’, il ‘cosa’ fa pochi progressi in termini di diffusione, di avanzamento.

Sarà forzato, ma trovo questo -paradossalmente- poco evangelico. Forse Gesù, nella profondità e nell’infinità di sfaccettature da dare a questa Sua affermazione, ‘previde’ anche questa nostra ormai pluridecennale empasse, quando proruppe affermando che Egli era non solo la Vita e la Verità, ma anche la Via per arrivare all’una ed all’altra.

Che, insomma, il percorso, la strada, il ‘come’ (appunto) non deve spostarsi troppo dalla meta, dal traguardo, dal ‘cosa’, poichè essi coincidono nella Sua storia, in Lui.

Forese, per dirla con una citazione che abuso, il mezzo è davvero il messaggio, come intuì Marshall McLuhan proprio pensando a Cristo, uno che di broadcasting, di comunicazione, se ne intendeva.

*     *     *     *

Leggo spesso, trascorsi -appunto- quasi trent’anni, che oggi dobbiamo limitarci a ‘intraprendere processi’, solamente ad ‘avviarli’.

A dare, insomma, spinte o spintarelle, stando attenti a non dare spintoni.

Senza preoccuparci però di segnalare (o di pretendere di sapere o programmare) dove andiamo o vogliamo fare andare gli altri.

Il viaggio, il percorso, il ‘come’ -insomma- sono diventati -sessant’anni dopo- il ‘cosa’. Una ‘meta’ che presuppone il non volere prefiggersi alcuna meta…

Mc Luhan -e, forse, Cristo- paiono capovolti: il messaggio da propagare è il mezzo; la vita e la verità consistono solo nella via, ma in una via qualsiasi; anzi in una via senza segnaletiche, che si lascia aperti tutti gli sbocchi…

Sarà così che il ‘come’ finirà per uccidere il ‘cosa’?

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Aneliamo ad una ‘Patria’ che venga a salvarci

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Diciamolo subito: capiamo tutti coloro ai quali Dunkirk non è piaciuto.

Dei film di Nolan è sicuramente il più spiazzante.

Non certo per come è congegnato, con l’idea dei tre tempi -una settimana, un giorno ed un ora- su tre elementi diversi (rispettivamente la terra, il mare ed il cielo).

Non certo per la stringatezza di una sceneggiatura in cui i dialoghi, chiave interpretativa dei film del nostro, sono quasi annientati ed a volta (volutamente?) coperti dai rumori assordanti della guerra.

Non certo per il fatto che, in fondo, si tratta di tre storie che convergono verso un punto preciso ed a cui fa da sfondo la Storia, con la maiuscola.

No. Dunkirk ti spiazza perchè ha la pretesa di volerti infilare dentro questa Storia e queste storie, ed ha avuto la pretesa di chiedertelo esplicitamente con tutta l’onestà possibile: col battage pubblicitario, con la forma di riproduzione consigliata (cinema IMAX e, in alternativa, schermi grandi ed immersivi) e persino da Nolan stesso, ben prima che il film uscisse.

Se la proposta è sempre stata questa -immergersi, ‘partecipare’ ad un evento sensoriale- resta da capire perchè sia stata voluta così, perchè per Nolan c’è sempre un perchè dietro quello che fa.

E il perchè mi è sembrato anch’esso esplicito, onesto fin da quando si è appreso qualcosa sul film: Dunkirk è stata una trappola di massa per qualche centinaia di migliaia di soldati; è stato il ritrovarsi accerchiati, senza vie d’uscita, impotenti contro un destino e dei nemici inesorabili (tanto inesorabili, da avere la certezza tattica di poter colpire, annientare e fare prigionieri come e quando volevano, di poter tergiversare e fare altro, tanto inglesi e francesi -in quella baia- si trovavano alla loro mercè)

E non è forse come la nostra, tale condizione? Non è forse come quella di chi si guarda attorno e, messo davanti ai fatti della sua storia e dell’incedere di quella dei popoli, non vede vie d’uscita?

Non è, la nostra condizione, quella di chi -disperatamente alla ricerca di un luogo dove stare al sicuro- ha capito che non è possibile stare al sicuro da nessuna parte, come i due protagonisti ‘a terra’ che -per una settimana- si spostano dalle case della città, alla battigia, al molo, alla nave-ospedale, al peschereccio arenato e, infine, sull’incrociatore, per rendersi conto che da nessuna parte c’è scampo?

Quella di chi sperimenta che ogni barca, che stia a Dunkirk o vi parta, è destinata ad imbarcare acqua, ad essere crivellata dal tiro a segno crudele eppure casuale dei nemici o ad essere bombardata senza pietà dagli aerei?

Non è la nostra, la condizione di chi -sempre- vorrebbe trovarsi ‘altrove’ e non nel luogo in cui si trova? Di chi è costretto ad una sedentarietà o piattezza, a vivere il tempo in un’attesa nella quale speranza ed angoscia si immischiano, poiché -in ogni istante- può capitare che arrivi aiuto o, anche contestualmente, ti piombi addosso il nemico con le sue bombe ed i suoi proiettili?

Non è questa precarietà, sospesa fra disfatta e speranza, anche la nostra?

Quindi, cosa ci chiede, onestamente di fare Nolan, proponendoci di vivere, per un paio delle nostre ore, i tre tempi e i tre spazi di Dunkirk, se non di riflettere sulla nostra condizione, e non solo perchè -in questo palcoscenico- i personaggi (senza nomi, come gli spettatori di un cinema), danno fondo ad episodi di coraggio, vigliaccheria, paura, sfrontatezza, furbizia e stupidità?

Cosa ci chiede, se non di renderci conto di ciò che siamo e che la guerra, in fondo, serve solo a far uscire fuori con maggiore verità e schiettezza?

Se Dunkirk, per alcuni è ‘noioso’ è perchè la realtà stessa lo è: l’attesa della marea, nella barca, dei soldati che vi si sono infilati dentro è fatta anche di noia, come quella di chi -stremato dal non far nulla- decide con un atto di prometeica stupidità, di lasciare la battigia, spogliarsi dell’equipaggiamento, per tuffarsi in mare -in mezzo alle alghe schiumose e viscide- e tentare di nuotare verso l’altra riva. Decide di farlo non per ‘eroismo’ (‘eroismo’ per chi, per cosa?) ma perchè non ce la fa a limitarsi a ‘sopravvivere’, perchè non ha alcuna speranza, perchè la Patria e la Casa (entrambe rese in inglese con la parola Home), sono solo un’altra ‘sponda’, un luogo in cui c’è solo la possibilità di vivere in maggiore ‘pienezza’ (non è chiaro di cosa), fuori dall’angoscia dell’esistenza.

E già, la Casa o, se vogliamo, la Patria….

Al culmine del molo -quel luogo metafisico in cui è più vicina la possibilità non solo di vedere la riva della Patria, ma da dove sembra più imminente ed accessibile la fuga, da dove è più graffiante il sentimento della speranza- al culmine stanno i Capi, non meno impotenti. Il molo è una inevitabile, ineluttabile ‘trappola’ della speranza: accucciati l’uno sull’altro, lì i soldati sono bersaglio più facile per gli aerei nemici.

Eppure, tutti si affannano a raggiungerlo, perchè è il luogo da cui è possibile vedere la Patria. Da cui è possibile farsi assalire dal dubbio che la Patria non ti aiuterà, perchè troppo preoccupata di difendere sé stessa. Ma il dubbio assale perchè è nutrito da una fiducia basilare su ciò che la Patria rappresenta: solidarietà, comunanza, famiglia, incapacità di abbandono.

La Patria, per alcuni di loro, non è solo un luogo (o un luogo che contiene in sé un tempo diverso ed opposto da quello che contiene Dunkirk: il tempo della salvezza). La Patria è qualcosa di vivo, di non inerte.

E questo per Nolan -e per la Storia- è verissimo.

La Patria si muove, la Casa si sposta con tutto ciò che può, verso i propri figli. Per usare un termine tecnico: si fa extraterritoriale, a colpi di barche e yatchs, e viaggia verso Dunkirk per portare via i suoi soldati.

Credere e sperare è servito: e il racconto storico, riecheggia nel film di una moltiplicazione di numeri a noi credenti più familiare, quando apprendiamo che Curchill contò di prelevarne, da Dunkirk, appena 35.000 di 400.000: alla fine, se ne salvarono più 350.000.

Credere e sperare in una Patria che è capace di spostarsi e di venire fino a Dunkirk -il luogo, che abbiamo appena descritto, della ‘precarietà’- produce miracoli.

E l’arrivo sulle sponde francesi di grandi e piccole imbarcazioni, di improbabili nocchieri in borghese o coperti di impermeabili gialli da pesca, è una delle scene più commoventi del film. E’ l’arrivo di una flotta scalcagnata, informe, smilitarizzata, armata solo di sé stessa e dell’idea -appunto- di essere lì ‘per la Patria’, di essere la Patria.

E su una di queste barche, quella la cui navigazione, in ‘un giorno’, è focalizzata dall’obiettivo di Nolan si consuma la tragedia più inaccettabile di tutte: l’imberbe volontario -dopo una colluttazione col primo dei soldati scappati che non vuole tornare a Dunkirk- cade sotto coperta, sbatte la testa e -dopo l’agonia e la cecità- muore prima di compiere la missione.

La gratuità esige un prezzo terribile, urtante: altro che retorica da film, dove i buoni trionfano (laddove ciò implica che restino vivi).

Il tributo più bello, nella battuta che -da sola- spiega la fiducia nell’umano di Nolan, lo rende a questa gratuità che appare ‘sprecata’ l’amico del ragazzo appena morto: quando, in preda ai sensi di colpa, il soldato chiede di sapere come si sente, il giovane biondo non gli dice la verità, ma lo rincuora “sta bene”.

Non è solo una bugia pietosa: è l’immagine di chi ‘onora’ il sacrificio di un amico, di chi ha ‘compreso’ fino in fondo l’idea di un ‘salvataggio’. E’ quella Patria, in quel ragazzo, che non vuole fare questione di ‘colpe’ o non vuole tenere in conto i ‘costi’.

Il tutto, mentre nel cielo, si combattono battaglie lontane, faticose, ma non meno decisive per la sorte di tutti.

Dei tre aerei -sì, proprio tre- che partono per intercettare il bombardiere nemico ne rimane uno solo, costretto a dare fondo a tutto carburante, prima di compiere l’ultimo salvataggio.

Un altro sacrificio -anch’esso urtante- si consuma: il pilota viene catturato, altra vittima del dovere che, partito per liberare tanti da Dunkirk, ne rimane intrappolato, fatto prigioniero dai nemici.

La Patria, insomma, ha pagato il prezzo dei suoi uomini migliori per salvarne tanti, molti dei quali immeritevoli.

Questi, umiliati, tornano a casa, convinti di essere dileggiati e detestati per il loro fallimento: ma, per loro, ci sono all’arrivo bottiglie di birra che sanno tanto di vitello grasso.

Nella terra del Padre (la Patria) o, se vogliamo, nella sua Casa è questa l’accoglienza, in fondo, per chi è stato ritenuto fino ad allora ‘perduto’.

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I ‘mostri di Rimini’ e l’ “Opzione Pilato”

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La vicenda dei quattro ‘migrati’ che avrebbero stuprato a Rimini una ragazza polacca e, di seguito, un transessuale tiene ancora banco su ogni tipo di medium.

Da essa, come spesso succede, sono partite tesi e controtesi, manco a dirlo, sull’immigrazione di massa alla quale -da qualche anno- stiamo assistendo.

Stavolta, però, è partito un corollario da cui vogliamo prendere spunto per approfondire il tema caro a questo blog: il limite ed il suo senso.

Mi riferisco alle polemiche feroci divampate a seguito della diffusione dei particolari dello stupro, così come riportati nei verbali delle deposizioni delle persone coinvolte.

Con grande scandalo ed indignazione di molti, ai quali non è andata giù questa mancanza di ‘continenza’ in certa stampa.

E’ del tutto evidente che ogni episodio che abbia, come sostrato, l’immigrazione e le sue ricadute sociali, economiche o civili, verrà utilizzato da una parte o dall’altra per suscitare emozioni, se possibile forti.

E’ questo il gioco ed i media, che ci guadagnano attraverso audience, copie o clicks, non si tireranno mai indietro nel praticarlo.

Ben più interessante è l’atteggiamento di noi, utenti mediatizzati e mediatizzanti, piccoli networks delle nostre idee e convinzioni (‘nostre’ o spacciate per tali) che siamo diventati, a nostra volta, ‘protagonisti’ del gioco dell’informazione. ‘Protagonisti’ per modo di dire, visto che -se azzardiamo troppo- i social media ci bloccano o, comunque vada, ci tengono sotto costante monitoraggio, in un fluido sondaggio di opinione senza apparente fine.

Un tema che merita di essere ripreso.

Ora però ci interessa proprio questa polemica sul ‘limite’ della diffusione dei particolari sugli stupri di Rimini.

Non ci interessa, lo diciamo subito, richiamare altri precedenti di propalazione di verbali giudiziari, a cominciare da quelli, anche ‘pruriginosi’, che riguardarono alcuni leaders della politica. Eppure anche in quel caso molti invocarono un ‘limite’ alla pubblicazione, anche se in forza di altri ‘principi’ o ‘valori’.

Voglio solo dire qui che uno dei gravi problemi che questa ‘costumanza’ implica è quello che potremmo definire un progressivo ‘spostamento dell’autorità’ o, se vogliamo, della ‘titolarità del giudizio’.

Chi -specie fra i giudici e, in particolare, fra quelli inquirenti- ha favorito questo stato di cose ha provocato questo spostamento dei processi dalle aule della giustizia a quelle mediatiche.

Ed è abbastanza inquietante che, da cattolici, ci venga in mente come una sorta di -magari voluta, o forse no- ‘Opzione Pilato’: la scelta magari inconsapevole dell’Autorità costituita di deferire alla massa, al dèmos, il giudizio e -prima ancora- il processo.

Inquietante poichè richiama una deriva finale dalla quale è difficilissimo tornare indietro.

Terribile a dirsi, ma profondamente vero: è questa insana tendenza -avallata da molta magistratura e non solo in Italia- a provocare -insieme ad altri fattori- il progressivo scollamento di quello stesso dèmos dalle medesime elites giudicanti.

Questo perchè esse -tenute alle regole processuali e sostanziali- possono giungere a conclusioni ben diverse e quindi non gradite a quelle della massa.

Rimini, in questo, può già fare ‘scuola’: si pensi ai tanti che -di fronte alla prospettiva che sia (come deve essere) la giustizia italiana a giudicare gli stupratori o presunti tali- già ‘tifano’ affinchè venga concessa subito l’estradizione dei quattro alla giustizia polacca che, in modo molto spiccio, si è ‘offerta’ di giudicarli.

Meglio gli ‘incazzati’ polacchi, insomma, dei miti, lenti (o magari ‘ideologizzati’) magistrati italiani: categoria a cui appartegnono gli stessi che hanno consentito alla diffusione dei verbali dove viene raccontato l’orrore dello stupro riminese…

Per non parlare della ‘sommarietà’, dell’approssimazione di un simile ‘giudizio’ popolare e delle tensioni -sempre in seno al dèmos– che esso sta creando fra i colpevolisti e i giustificazionisti, entrambi ad oltranza. Tensioni che certo non aiutano i magistrati a decidere e le autorità a mantenere un ordine che si va sempre più perdendo.

E così, anche un terribile fatto di un’estate italiana, finisce per confermarci quanto sia profondo e grave, ai limiti dell’irreversibilità, il dissolversi di ogni tipo di autorità costituita, sopratutto nel nostro Paese.

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Charlie o, forse, il ‘katechon’

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NOTA

Ho scritto questo pezzo giorni fa, ma qualcosa mi ha impedito di pubblicarlo prima.

Cosa?

Una forma di rispetto ‘estremo’ per la vita umana, per la piccolezza di un esserino indifeso. Il fatto che, sui bambini, non ho mai accettato speculazioni, neanche a sostegno di tesi sacrosante, fossero anche le mie. Rifiuto l’idea di ‘usare’ un bimbo per propalare una idea, anche la più apparentemente nobile.

Ora, Charlie Gard è stato condannato a morire dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, qualche minuto fa: nella foto è raffigurato quello che resterà, dopo, di Charlie, i suoi genitori.

Rileggo queste mie parole qui sotto e rifletto sul fatto che tutto è finito, che siamo davvero finiti, con quel bambino.

Siamo ‘oltre’: il katechon è stato rimosso.

*       *      *     *     * 

La Corte di Strasburgo si è presa qualche giorno in più per decidere sulla sorte del piccolo Charlie Gard.

La vicenda di questo neonato è ‘estrema’: vi si incontrano vita -per di più allo stadio iniziale- e morte.

E’ un vero e proprio ‘crinale’, e non solo per la fragile esistenza di quella creatura, o per i suoi tenaci genitori. No, pare esserlo anche per noi, per la nostra ‘civiltà’ o per quello che ne è rimasto.

Non è solo perchè è da stabilire se la scienza, la medicina o il diritto potranno ancora dirsi in grado di coltivare la speranza. Una idea di ‘oltre’, di potenzialità, di fiducia non certo o non solo in un intervento eccezionale, di un Altro, insomma.

Parlo di fiducia in loro stessi. Fiducia, in pratica, nell’essere umano, nelle sue potenzialità di futuro. Fiducia nell’uomo.

Perchè c’è una scienza e, con essa, una tecnica che promettono grandi orizzonti ma che, al contempo, ne sbarrano inesorabilmente (e abbastanza inspiegabilmente) degli altri. Magari perchè ‘costano troppo’ e non necessariamente del costo del denaro.

La flebile vita di Charlie è uno spartiacque, buttatoci tra i piedi dalla cronaca che -però- ha ben altri ‘percorsi di civiltà’ da percorrere. La sorte di Charlie può dirci molto e, temo, qualcosa di definitivo su quello che siamo diventati, se davvero lo siamo diventati.

Echi erodiani, in questi giorni, mi ritornano in mente: anche lì si trattava della sorte di un neonato, da trovare ad ogni costo, da eliminare. Si trattava, inconsapevolmente, di sbarrare la strada a un Dio che si incarnava, assumendo la nostra sorte per riscattarla.

Qui la strada pare doversi sbarrare davanti al destino di un semplice uomo, che ci rappresenta tutti: non meno innocente, non meno indifeso di quel bambino nato a Betlemme.

Allora si trattava di continuare a vivere nella disperazione.

Qui si tratta di risaltarci dentro, una volta per tutte, consapevoli che la abbracciamo con tutti noi stessi.  Che la vogliamo poichè non c’è più nulla in cui sperare; nulla per cui valga la pena di sperare.

Se sei malato gravemente, se non puoi ‘vivere’ appieno, se la tua vita non è solo presente o potenzialità di presente, non vale a nulla. Questa ‘legge’ (di una giungla in cui conta la capacità di assumere il piacere o produrre) vale per tutti, compreso quel fagottino che respira a malapena.

Raccontano le cronache dell’accanimento con il quale medici e avvocati dell’ospedale di Londra in cui è ricoverato si battono affichè il ‘sostegno vitale’ venga terminato.

Dovrebbe essere tutto asettico, per loro, è per molti versi lo è. Ma è sempre la solita storia: il morente è ‘osceno’; è, a quanto pare, è ancor più urtante se è avvolto in tenere fasce. Il morente suscita reazioni estreme, come la sua condizione. Figurarsi -come detto- un morente appena uscito da una condizione di ‘pre-vita’, da un estremo all’altro.

Charlie è così diventato, suo malgrado, uno steccato, con un aldiquà ed un aldilà.

Lo steccato che divide una civiltà da un’altra.

L’esile forma di un bambino appena nato ‘trattiene’ un’elaborazione plurisecolare del concetto di ‘persona umana’: se Charlie sarà ‘interrotto’, avremmo definitivamente dato vita ad un’idea ben diversa dell’essere umano, ne avremmo scritto una definizione chiara, ma ben distinta da quella che abbiamo sempre creduto e condiviso.

Se sarà ‘tolto di mezzo con ingiusta sentenza’, Charlie sarà lì a rappresentare l’ultimo degli argini caduti.

Tutto sarà ‘lecito’, tutto sarà ‘possibile’; perchè sarà ‘condivisibile’ e ‘ragionevole’, secondo nuovi ‘standards’ di ‘umanità’.

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Del morire ‘dignitosamente’

Ci risiamo.

Riappare, a margine del provvedimento con cui la Cassazione si è occupata dell’istanza di Totò Riina di uscire di galera per passare altrove i suoi presumibilmente ultimi giorni, il concetto di ‘morte dignitosa’.

Non ci preoccupa certo il già straripante dibattito sul caso e… se sia il caso.

Questo presupporrebbe la lettura del testo ed un esame normativo che, da avvocato e cittadino, lascio volentieri ad altri.

Il che non significa che non abbia una mia idea sul tema: la tengo per me.

No, lo spunto è ghiotto, proprio perchè ritorna questo slogan della ‘morte dignitosa’ che, ovviamente, ha scatenato l’inferno sui media, anche social, appioppato -sia pure in via ipotetica- al c.d. ‘Capo dei Capi’.

Mi chiedo brutalmente: c’è una ‘dignità’ del morire che giustifichi una ‘dignità’ nel modo di morire?

Una risposta cattolica, credo, contenga in sè l’inevitabile et-et, qui più crudo e spiazzante che mai.

Il morire è un… insulto insopportabile alla vita, specie se… ci capita personalmente o achi è vicino.

Qualcosa -che solo un determinismo ed un positivismo pacchiani possono chiamare ‘istinto di sopravvivenza’- si ribella nel profondo dell’uomo alla sola idea della propria morte. Il proprio morire non ha alcuna ‘dignità’, perchè non è questo a cui ci si sente chiamati.

Paradossalmente, coloro i quali vogliono morire, specie per evitare atroci sofferenze, lo confermano: dicono, infatti, ‘non è vita’, poichè una vita nel dolore è anticipo di morte nella qualità o nella quantità delle potenzialità umane.

Per quanto grottesco, nel suo essere pateticamente prometeico, l’epitaffio che sta sulla tomba di Claudio Villa ( “Vita sei bella, morte fai schifo”) ha un che di vero: la morte ci fa più ‘schifo’ di ogni cosa, la sentiamo innaturale, la rifuggiamo.

Credo sia, sempre in una prospettiva di fede, un retaggio dell’immortalità dell’anima che si unisce all’inevitabile unità di quest’ultima, nell’essere umano, con la corporeità.

In questo senso, morire non è affatto ‘dignitoso’, non può mai esserlo.

Tuttavia, ed ecco l’altro estremo dell’ossimoro, morire è l’atto più ‘dignitoso’ che l’uomo possa… compiere, specie se si è lucidi nel momento fatidico.

L’uomo sa di dover morire: e, nella prospettiva cristiana, questo è un passaggio verso l’eternità; una nuova ‘partenogenesi’; una pasqua in cui il carattere ignoto delle ‘destinazione’ non sminuisce, ma -se possibile- amplifica la solennità del momento.

Un atto che, in epoche ormai ‘remote’ implicava una socialità, non solo familiare, consona all’importanza del momento: si aprivano, per il parente o l’amico, le porte di un Altrove.

Il tutto implicava -ed implica ancora, anche se in forme diverse- bilanci di vita; e ci si ‘pesava’ forse, finalmente, senza alibi nè camuffamenti, in modo sincero ed onesto.

Il morire, insomma, implica anche la ‘dignità’ dell’essere umano: quella di chi è consapevole, onesto fino in fondo con sè stesso, portatore di un giudizio su di sè scevro da opportunismi o di ‘ruoli’ da sostenere.

Non è una ‘dignità’ di tutti: se prevale la ribellione verso la morte, questo ‘esame’ o ‘soppesamento’ di sè stessi può non accadere.

Ma, se accade, è un giudizio che, nel credente, sarà una preparazione di quello, ben più profondo e decisivo, che lo attenderà dietro la soglia appena varcata.

Difficile et-et, insomma, intenso ed abissale…

Eppure, la dignità massima e lo ‘schifo’ portati con sè dal morire convivono, ineluttabilmente, l’una con l’altro. In questa ‘convivenza’ si scontrano, si alternano, condizionando stati d’animo del morente e di chi sta a lui vicino.

La morte riassume davvero la condizione umana e non solo perchè vi pone fine.

Non è detto dunque che, per Totò Riina sarebbe una ‘passeggiata’ quella nella ‘dignità’ del morire. Anzi, in termini di patimento, potrebbe essere non dissimile dal morire col massimo del rigetto verso la propria fine, se non di più…

Spesso, infatti, il bilancio di sè stessi è davvero insopportabile.

Proprio perchè è un uomo, e non una ‘belva’, ci auguriamo -dunque- che il Corleonese muoia ‘dignitosamente’.

Oltre, comunque, troverà Chi saprà giudicarlo.

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“Everything that you imagine is real” Really?

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“Tutto ciò che puoi immaginare è reale”?

E’ vero?

Oltre due secoli fa, forse più considerando alcune ‘avanguardie’, è iniziata la ‘dittatura dell’immaginazione’.

La ‘civiltà dell’immagine’, la ‘dittatura del relativismo’? A mio parere, due semplici corollari.

La vera dittatura è proprio quella dell’immaginazione sul reale.

Lo scenario dell’ideologo illuminista, comunista o nazista, ambientalista: esercizio di ‘immaginazione’ pianificata per cambiare la realtà fino a violentarla e devastarla (oggi svuotarla), laddove non si adeguasse.

La visione dell’artista ‘alternativo’ (la frase è di Pablo Picasso e… gli calza ‘a pennello’): il dirompente messaggio che, dal considerare l’intera realtà solo ciò che vediamo dalla prospettiva da cui lo vediamo, al considerarla ciò che vediamo …chiudendo gli occhi, il passo è breve, brevissimo…

Ed, ormai, a furia di parcellizzare la realtà, di decostruila, di guardarla e giudicarla in tanti modi quanti sono gli ipotetici punti d’osservazione, di osservarla -insomma- come un affresco cubista, abbiamo finito col chiudere gli occhi nei confronti dell’interezza e della complessità del reale.

Oggi, appunto, ‘comanda’ l’immaginazione-astrazione, sia essa intesa come programma-visione che come astrazione estrema, a fini ideologici o narrativi, di un solo aspetto della realtà, trascurando gli altri.

Sicchè, ormai, è solo ciò che puoi immaginare ad essere ‘reale’.

Tutto ciò che ‘sfugge’ all’impero dell’immaginario finisce così per infastidire e disturbare. E lo rimuoviamo, con un meccanismo di difesa ormai automatico; con tratti nevrotici, spesso implicanti aggressività verso chi ‘dissente’ dalla visione (fosse anche per perorare la sua, di visione).

Unico ‘ponte levatoio’ fra due o più ‘fortezze della solitudine’ dell’immaginario è il riconoscimento del relativo: se io, riconosco che il mio è un secondo me e anche l’altro lo fa, scatta la ‘pace’ (o, sarebbe meglio dire, la ‘tregua’).

Ma non è un vero ‘incontro’, non c’è una sintesi: il ponte levatoio rimane alzato e ognuno resta della sua idea-convinzione.

Sul reale, sulla sua complessità, sulla sua esplorazione -invece- può avvenire l’incontro ed il confronto,  l’accettazione dei problemi e la sintesi delle soluzioni.

In una parola: la condivisione.

Il reale è un ponte sempre abbassato e comunicante, perchè è la terraferma; nessuno può ritrarsi quando vi si confronta davvero, salvo voler continuare a vivere sulle nuvole.

 

 

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Io non sono buono

Nonostante lo ‘scafo’ che mi porto addosso, riesce sempre a colpirmi il richiamo ai valori ‘cristiani’ da parte di chi si dice, con orgoglio, agnostico, ateo o, comunque, non cattolico.

Sia chiaro: il mio non è il classico ‘che cosa possono saperne loro’, anzi!

Loro possono ‘saperne’ perchè il punto di approdo del loro essere ‘solidali’, ‘aperti’ e ‘tolleranti’ altro non è che lo sviluppo di valori, esperienze e culture cristiane e cattoliche.

Sono che, pur ‘sapendo’ (nel senso etimologico del termine, cioè ‘assaporando’) di cristianesimo, ne ‘sanno’ a modo loro: con una ‘memoria’ ed una ‘consapevolezza’ ormai lontane dal fatto cristiano e dall’esperienza della Chiesa, dalla quale essi -appunto, orgogliosamente- prendono le sempre più ampie distanze.

In che consiste -allora e volendo brutalmente semplificare- codesto comportarsi ‘da cristiani’ che ci viene spesso rimporverato mancare nei nostri atteggiamenti?

In una parola: non siamo sufficientemente ‘buoni’.

Tutta la critica – a partire da quella storica- alla Chiesa sembra potersi riassumere in questo: non è mai stata all’altezza della ‘bontà’ che predica; con un dato sempre più evidente, negli ultimi tempi: ormai la Chiesa non è all’altezza della ‘bontà’ neanche quando predica ciò che ha sempre predicato.

E, allora, ecco l’affannarsi di tanti uomini di Chiesa appresso alla ‘bontà’; ecco la gara ad una sollecitudine -sopratutto quella a parole- sempre più nobile, alta; disinteressata ai limiti del vero e proprio suicidio e delal dissipazione di sè.

Eppure (o, forse, proprio per questo motivo) una delle battute più misteriose del Cristo nei Vangeli, attiene a questa ‘pretesa di bontà’ sempre più assoluta e sbandierata.

E’, chiaramente, il passo in cui Gesù, apostrofato come ‘Maestro buono’, rivolge al suo interlocutore una risposta che sembra un po’ ‘scostante’: “Perchè mi chiami ‘Maestro buono’? Nessuno è buono tranne Dio!”.

La battuta, ovviamente, è conferma e conforto della divinità di Cristo. Anzi -estendendo il concetto- non pare esserci ‘bontà’ al di fuori delle divinità. O, se vogliamo, tutto ciò che è buono è divino.

Ma dice una verità sull’uomo: “nessuno è buono”.

Hai voglia sforzarti o, peggio, atteggiarti: non sei ‘buono’, nè potrai -da te stesso, da solo- mai esserlo.

Ecco: io non sono buono.

E mi sembra, oltretutto, un buon punto di partenza, per non sentirmi mai ‘arrivato’

 

 

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16 aprile 2017

Messori e BXVI 2

L’e.mail che ho appena ricevuto è, al solito, chiara ed ‘aperta’: “non so se vale il sito…..giudica tu…”.

Quello che dovrebbe ‘valere’ è l’intervista che Vittorio Messori ha rilasciato a Riccardo Caniato e che si trova pubblicata sul settimanale Gente, in uscita questa settimana.

Che ‘valga’ il sito dello scrittore è scontatissimo: è un breve ricordo della sua amicizia con Joseph Ratzinger, il ‘Papa emerito’ Benedetto XVI, in occasione del 90° compleanno di quest’ultimo, del prossimo 16 aprile.

Una ricorrenza che ‘pesa’, specie per uno come me, che da tanto ‘peso’ appunto alle date.

Questo ‘novantesimo’ non cade in un giorno qualsiasi: il 16 aprile sarà il giorno di Pasqua di questo 2017, oltre che il giorno del compleanno di Ratzinger… e di Vittorio Messori.

E il 16 aprile del 2017, sarà la ricorrenza di santa Bernadette Soubirous, la veggente di Lourdes, dell’anno in cui si celebra il centenario dell’altra apparizione mariana per eccellenza: quella di Fatima.

Un bell’intreccio, insomma.

Reso ancor più intrigante, se possibile, dalla profonda coloritura di stile mariano con cui si manifesta: la festa liturgica della Santa (e quella genetliaca del papa emerito e del suo intervistatore) saranno ‘sovrastate’ e completamente ‘coperte’ dalla festività pasquale.

Cosa c’è, insomma, di più ‘mariano’ di un ‘nascondimento’ in cui una ricorrenza sparisce dietro un’altra che, però, è la più importante e nobile di tutte?

 

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