Nella stimolante ed utilissima tre giorni che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siracusa ha organizzato a Noto, settimane fa, ho subito puntato il seminario sui ‘limiti e l’utilità’ del c.d. ‘processo mediatico’.
Non me ne sono pentito: chiaramente il giudizio di noi tecnici sulla progressiva ‘uscita dalle aule’ del processo (specie penale) si è rivelato ricchissimo di sfumature negative.
Non ne riferirò qui.
Lascio quindi in sospeso il dilemma -professionale e umano- dell’avvocato che si trova a doversi occupare di un dibattimento (già da prima, sin dalle indagini) che viene svolto in più contesti estranei alla sede processuale ufficiale: rimanere in Aula -laddove si forma o si dovrebbe formare ciò che conta davvero ai fini della decisione- ovvero inseguire i mirrors mediatici del caso, presenziando a dibattiti televisivi, ricostruzioni, interviste e rotocalchi che dovessero occuparsene? Dilemma di non poco momento: il magistrato presente al seminario ha -molto onestamente- chiarito che, in quanto uomo del secoolo che viviamo, difficilmente può rimanere del tutto indifferente a quanto si forma -in termini di tesi, opinioni ed interpretazioni- ‘fuori’ dall’aula, pur cercando, per quanto possibile di ‘starci dentro’ con ogni mezzo…
Mi interessava una domanda che, a un certo punto, ha fatto capolino: perchè i media si sono -di fatto- negli ultimi anni ‘impadroniti’ del processo, applicando le loro leggi spietate nella ricostruzione di una verità (anzi, di più ‘verità’) sul fatto delittuoso?
Mi sembra di poter dire qualcosa che stia nei termini dello scopo di questo blog: di fatto, il processo mediatico è fenomeno che fa uscire dai confini, da quella che dovrebbe essere una ‘safe house’, l’aula giudiziaria, ciò che -per motivi di rigore nel metodo e nell’indagine- dovrebbe rimanervi custodito gelosamente.
Eccoci dunque.
Il processo come ‘fatto mediatico’
Nel considerare l’osmosi fra il processo e la sua riproduzione nei media si dimentica -ed a Noto è accaduto- che il processo stesso (civile, penale amministrativo, poco importa) è un ‘fatto mediatico’.
Basti pensare al procedimento penale. esso prende le mosse da quella che, con termine assolutamente illuminante, viene chiamata ‘notizia di reato’…
Quest’ultima è il racconto di un fatto del quale si afferma il disvalore rispetto alla norma penale: e ogni racconto è già un fatto mediatico, una ‘narrazione’ che -peraltro- risulta già caricata di considerazioni sull’ethos, sul disvalore, nel momento in cui nasce e viene portata a conoscenza di chi deve dapprima indagare.
Quest’ultimo acquisisce, a sua volta altre notizie, elabora tesi, raccoglie elementi che rimanda… mediaticamente, con la comunicazione al giudice inquirente il quale, alla fine, tira le somme e formula un capo d’imputazione (ovvero una richiesta di archiviazione) che esprimono un giudizio sulla notizia e sul suo potenziale disvalore rispetto alla norma penale.
Come se non bastasse tutto questo, ai fini della decisione e della ricostruzione della verità su quel fatto, è previsto un passaggio dibattimentale nel quale -anche a colpi di notizie e di altrettante comunicazioni dalla fortissima connotazione mediatica- si scontrano più ricostruzioni (quelle dei testimoni, quelle degli avvocati e della pubblica accusa, quelal dei periti…).
Alla fine, il tutto viene chiuso -ancora una volta- da un dictum, la sentenza, che è anch’essa una narrazione, un ricostruzione, riportata sulla carta: uno dei più antichi medium conosciuti dall’umanità…
Facile -dunque- che il processo mediatico si ‘sovrapponga’ a quello giudiziario, cannibalizzandolo: entrambi ne condividono, per centi versi, l’essenza…
Due ‘seti deviate’: verità e giustizia
Il ‘successo’ del processo mediatico, il suo far breccia nell’audience sta anche in quanto si trova inscritto nell’animo umano: la sete di verità e quella di giustizia.
Inutile negarlo: posto un fatto, conosciutolo più o meno profondamente, l’essere umano si forma un giudizio sullo stesso che parte, anzitutto, dalla volontà di conoscerne la corrispondenza al vero.
Il ‘successo’ sta proprio in questo che, la capacità di avvincere del racconto sta anche, se non sopratutto, nel fatto che lo stesso sollecita in chi ne viene a conoscenza un giudizio morale sullo stesso e su chi lo ha commesso (e, en passant, anche sulla presunta vittima).
Ciò -ovviamente- ci dice qualcosa che già sappiamo, cristianamente, sull’essere umano, sulla sua sete di verità e giustizia.
Tuttavia, c’è il rovescio, la distorsione sulla quale i media sguazzano: nella percezione del racconto dell’evento delittuoso e dei particolari, anche di contorno, il ‘discente mediatico’ è portato ad appassionarsi anche nella misura in cui si fa un po’ avvocato ed un po’ giudice del fatto.
Anche qui con un mischiarsi dei ruoli, oltre che dei piani…
Tale aspetto è drammaticamente esploso con i social networks, nei quali il tot capita, tot sententiae è diventato la regola.
Ma -anche qui- siamo sul piano dell’inevitabile: il processo (specie quello penale) è pubblico e, anche dai vecchi film, è possibile ammettere che una siffatta ‘partecipazione’ di estranei al processo fosse già presente ben prima che nascesse quello che oggi chiamiamo ‘processo mediatico’.
‘Un giorno in Pretura’ e poi subito fuori!
Ovviamente, in quel seminario netino, non poteva mancare l’accenno all’antesignano, al bisnonno di ogni ‘processualità mediatica’ italica: la nota trasmissione di RAI TRE ‘Un giorno in Pretura’.
I Colleghi più giovani ne parlavano bene e li comprendo: in effetti la struttura della trasmissione prevede i filmati presi dall’Aula, riportanti il processo ‘vero’. Da qui l’aura di ‘ufficilialità’, di ‘autorevolezza’ che quel programma ha sempre avuto.
Tuttavia, io non ne sarei così entusiasta: come ogni prodotto televisivo (e, prima ancora, giornalistico) la ‘mediazione’ del mezzo si vede ed è pesante.
Già nel rimaneggiare, stringendo all’osso per i ben comprensibili motivi di tempo, il materiale ripreso durante il dibattimento, assistiamo ad una distorsione: non tutto ciò che avviene nel processo è riportato e c’è sempre lo zampino di chi ha deciso quali parti riportare e quali altre no.
Inoltre, è invalso l’uso di intervallare i pezzi del dibattimento con aggiunta da studio (interviste all’imputato, agli avvocati ecc): e già questa è una commistione dei piani (processuale e mediatico) tutta da valutare.
E, per quanto ‘imparziali’ siano le testate giornalistiche, per quanto ancora -ingenuamente- possiamo credere che esse lo siano, questa ‘verità processuale’ resterà, con questi sistemi, sempre parziale e condizionata.
Non solo. Il fatto che essa appaia la ‘verità formatasi nel processo’ è doppiamente pericoloso per l’utente mediatico. Come detto, egli si forma un giudizio in base a ciò che vede, come è stato ben detto a Noto, e la sentenza finale non lo scalfirà più di tanto.
Se possibile, andrà ancora peggio: il giudizio dell’utente televisivo si estenderà non solo all’imputato ed alla vittima, ma ai rispettivi avvocati, al Pubblico Ministero e, paradosso finale, anche al Decidente.
Cosicchè, alla sbarra dell’Aula-Studio televisiva, a turno, saranno portati un po’ tutti i protagonisti del processo vero; pronti tutti a diventare imputati nel processo di formazione della ‘verità generale’ che i media, senza argine alcuno, vorranno diffondere.