Diciamolo subito: capiamo tutti coloro ai quali Dunkirk non è piaciuto.
Dei film di Nolan è sicuramente il più spiazzante.
Non certo per come è congegnato, con l’idea dei tre tempi -una settimana, un giorno ed un ora- su tre elementi diversi (rispettivamente la terra, il mare ed il cielo).
Non certo per la stringatezza di una sceneggiatura in cui i dialoghi, chiave interpretativa dei film del nostro, sono quasi annientati ed a volta (volutamente?) coperti dai rumori assordanti della guerra.
Non certo per il fatto che, in fondo, si tratta di tre storie che convergono verso un punto preciso ed a cui fa da sfondo la Storia, con la maiuscola.
No. Dunkirk ti spiazza perchè ha la pretesa di volerti infilare dentro questa Storia e queste storie, ed ha avuto la pretesa di chiedertelo esplicitamente con tutta l’onestà possibile: col battage pubblicitario, con la forma di riproduzione consigliata (cinema IMAX e, in alternativa, schermi grandi ed immersivi) e persino da Nolan stesso, ben prima che il film uscisse.
Se la proposta è sempre stata questa -immergersi, ‘partecipare’ ad un evento sensoriale- resta da capire perchè sia stata voluta così, perchè per Nolan c’è sempre un perchè dietro quello che fa.
E il perchè mi è sembrato anch’esso esplicito, onesto fin da quando si è appreso qualcosa sul film: Dunkirk è stata una trappola di massa per qualche centinaia di migliaia di soldati; è stato il ritrovarsi accerchiati, senza vie d’uscita, impotenti contro un destino e dei nemici inesorabili (tanto inesorabili, da avere la certezza tattica di poter colpire, annientare e fare prigionieri come e quando volevano, di poter tergiversare e fare altro, tanto inglesi e francesi -in quella baia- si trovavano alla loro mercè)
E non è forse come la nostra, tale condizione? Non è forse come quella di chi si guarda attorno e, messo davanti ai fatti della sua storia e dell’incedere di quella dei popoli, non vede vie d’uscita?
Non è, la nostra condizione, quella di chi -disperatamente alla ricerca di un luogo dove stare al sicuro- ha capito che non è possibile stare al sicuro da nessuna parte, come i due protagonisti ‘a terra’ che -per una settimana- si spostano dalle case della città, alla battigia, al molo, alla nave-ospedale, al peschereccio arenato e, infine, sull’incrociatore, per rendersi conto che da nessuna parte c’è scampo?
Quella di chi sperimenta che ogni barca, che stia a Dunkirk o vi parta, è destinata ad imbarcare acqua, ad essere crivellata dal tiro a segno crudele eppure casuale dei nemici o ad essere bombardata senza pietà dagli aerei?
Non è la nostra, la condizione di chi -sempre- vorrebbe trovarsi ‘altrove’ e non nel luogo in cui si trova? Di chi è costretto ad una sedentarietà o piattezza, a vivere il tempo in un’attesa nella quale speranza ed angoscia si immischiano, poiché -in ogni istante- può capitare che arrivi aiuto o, anche contestualmente, ti piombi addosso il nemico con le sue bombe ed i suoi proiettili?
Non è questa precarietà, sospesa fra disfatta e speranza, anche la nostra?
Quindi, cosa ci chiede, onestamente di fare Nolan, proponendoci di vivere, per un paio delle nostre ore, i tre tempi e i tre spazi di Dunkirk, se non di riflettere sulla nostra condizione, e non solo perchè -in questo palcoscenico- i personaggi (senza nomi, come gli spettatori di un cinema), danno fondo ad episodi di coraggio, vigliaccheria, paura, sfrontatezza, furbizia e stupidità?
Cosa ci chiede, se non di renderci conto di ciò che siamo e che la guerra, in fondo, serve solo a far uscire fuori con maggiore verità e schiettezza?
Se Dunkirk, per alcuni è ‘noioso’ è perchè la realtà stessa lo è: l’attesa della marea, nella barca, dei soldati che vi si sono infilati dentro è fatta anche di noia, come quella di chi -stremato dal non far nulla- decide con un atto di prometeica stupidità, di lasciare la battigia, spogliarsi dell’equipaggiamento, per tuffarsi in mare -in mezzo alle alghe schiumose e viscide- e tentare di nuotare verso l’altra riva. Decide di farlo non per ‘eroismo’ (‘eroismo’ per chi, per cosa?) ma perchè non ce la fa a limitarsi a ‘sopravvivere’, perchè non ha alcuna speranza, perchè la Patria e la Casa (entrambe rese in inglese con la parola Home), sono solo un’altra ‘sponda’, un luogo in cui c’è solo la possibilità di vivere in maggiore ‘pienezza’ (non è chiaro di cosa), fuori dall’angoscia dell’esistenza.
E già, la Casa o, se vogliamo, la Patria….
Al culmine del molo -quel luogo metafisico in cui è più vicina la possibilità non solo di vedere la riva della Patria, ma da dove sembra più imminente ed accessibile la fuga, da dove è più graffiante il sentimento della speranza- al culmine stanno i Capi, non meno impotenti. Il molo è una inevitabile, ineluttabile ‘trappola’ della speranza: accucciati l’uno sull’altro, lì i soldati sono bersaglio più facile per gli aerei nemici.
Eppure, tutti si affannano a raggiungerlo, perchè è il luogo da cui è possibile vedere la Patria. Da cui è possibile farsi assalire dal dubbio che la Patria non ti aiuterà, perchè troppo preoccupata di difendere sé stessa. Ma il dubbio assale perchè è nutrito da una fiducia basilare su ciò che la Patria rappresenta: solidarietà, comunanza, famiglia, incapacità di abbandono.
La Patria, per alcuni di loro, non è solo un luogo (o un luogo che contiene in sé un tempo diverso ed opposto da quello che contiene Dunkirk: il tempo della salvezza). La Patria è qualcosa di vivo, di non inerte.
E questo per Nolan -e per la Storia- è verissimo.
La Patria si muove, la Casa si sposta con tutto ciò che può, verso i propri figli. Per usare un termine tecnico: si fa extraterritoriale, a colpi di barche e yatchs, e viaggia verso Dunkirk per portare via i suoi soldati.
Credere e sperare è servito: e il racconto storico, riecheggia nel film di una moltiplicazione di numeri a noi credenti più familiare, quando apprendiamo che Curchill contò di prelevarne, da Dunkirk, appena 35.000 di 400.000: alla fine, se ne salvarono più 350.000.
Credere e sperare in una Patria che è capace di spostarsi e di venire fino a Dunkirk -il luogo, che abbiamo appena descritto, della ‘precarietà’- produce miracoli.
E l’arrivo sulle sponde francesi di grandi e piccole imbarcazioni, di improbabili nocchieri in borghese o coperti di impermeabili gialli da pesca, è una delle scene più commoventi del film. E’ l’arrivo di una flotta scalcagnata, informe, smilitarizzata, armata solo di sé stessa e dell’idea -appunto- di essere lì ‘per la Patria’, di essere la Patria.
E su una di queste barche, quella la cui navigazione, in ‘un giorno’, è focalizzata dall’obiettivo di Nolan si consuma la tragedia più inaccettabile di tutte: l’imberbe volontario -dopo una colluttazione col primo dei soldati scappati che non vuole tornare a Dunkirk- cade sotto coperta, sbatte la testa e -dopo l’agonia e la cecità- muore prima di compiere la missione.
La gratuità esige un prezzo terribile, urtante: altro che retorica da film, dove i buoni trionfano (laddove ciò implica che restino vivi).
Il tributo più bello, nella battuta che -da sola- spiega la fiducia nell’umano di Nolan, lo rende a questa gratuità che appare ‘sprecata’ l’amico del ragazzo appena morto: quando, in preda ai sensi di colpa, il soldato chiede di sapere come si sente, il giovane biondo non gli dice la verità, ma lo rincuora “sta bene”.
Non è solo una bugia pietosa: è l’immagine di chi ‘onora’ il sacrificio di un amico, di chi ha ‘compreso’ fino in fondo l’idea di un ‘salvataggio’. E’ quella Patria, in quel ragazzo, che non vuole fare questione di ‘colpe’ o non vuole tenere in conto i ‘costi’.
Il tutto, mentre nel cielo, si combattono battaglie lontane, faticose, ma non meno decisive per la sorte di tutti.
Dei tre aerei -sì, proprio tre- che partono per intercettare il bombardiere nemico ne rimane uno solo, costretto a dare fondo a tutto carburante, prima di compiere l’ultimo salvataggio.
Un altro sacrificio -anch’esso urtante- si consuma: il pilota viene catturato, altra vittima del dovere che, partito per liberare tanti da Dunkirk, ne rimane intrappolato, fatto prigioniero dai nemici.
La Patria, insomma, ha pagato il prezzo dei suoi uomini migliori per salvarne tanti, molti dei quali immeritevoli.
Questi, umiliati, tornano a casa, convinti di essere dileggiati e detestati per il loro fallimento: ma, per loro, ci sono all’arrivo bottiglie di birra che sanno tanto di vitello grasso.
Nella terra del Padre (la Patria) o, se vogliamo, nella sua Casa è questa l’accoglienza, in fondo, per chi è stato ritenuto fino ad allora ‘perduto’.